Say goodbye to everyone (no al mito del concerto come rito collettivo)

Mentre tornavo dal concerto degli Editors di stasera ho riflettuto su quanto e perché mi fosse piaciuto, e pensavo di scriverne qualcosa in un post su Facebook. Poi sono arrivato alla decisione un po’ matta di parlarne rispolverando questo vecchio blog, che non è attivo con continuità ormai da un lustro ma che non si è mai fatto problemi a ospitare “lenzuolate”.
Una decisione che ha alcune premesse. La prima premessa è la domanda che mi hanno fatto anche di recente alcuni amici sul perché non scriva più e se avrei voglia di rifarlo, perché potrebbe avere un qualche senso etc. – io rispondo più o meno sempre nello stesso modo, cioè che a me piaceva essenzialmente scrivere di musica, ma da quando ho iniziato a metterla come dj, la musica, sento di far uscire “la mia voce” molto meglio in questo modo. Ma ogni tanto a scriverci ci ripenso. La seconda premessa è il consiglio di altri amici di “contenere” la mia logorrea “social”  e sociale (online e offline), perché il fantomatico mistero e l’essenzialità funzionano sempre meglio, sotto vari punti di vista. Bene, quindi facciamo che queste tante righe non ho voglia di darle in pasto a Zucky e le metto qui, dove si spingeranno a leggerle quei due o tre interessati davvero: gli altri restino a postare e commentare sui meme del giorno.

Ma veniamo al concerto (il mio primo “vero” concerto degli Editors, perché quando aprirono al mio primo concerto dei R.E.M. non gli dedicai alcuna attenzione – lo so, non si fa, ma *il mio primo concerto dei R.E.M.*). Gli spunti su cui scrivere sarebbero tanti (anche se forse questo dipende anche dall’interruzione della mia “astinenza”: ho visto centinaia di concerti senza scriverne, in questi anni).

C’è il contrasto tra il pubblico degli Editors e quello dei The Cult, solo in parte sovrapposto (le due band sono state abbinate dal Pistoia Blues in una non troppo fortunata serata “doppio headliner”, gli Editors a chiudere). Le aspettative un po’ di tutti erano per degli Editors che avrebbero portato più gente dei Cult, e non mi sembra andata esattamente così. Qui si potrebbe anche aprire una parentesi su come questa estate toscana di concerti stia dimostrando ancora una volta quanto il pubblico premi in modo differente i gruppi “pre” e “post” 2000. Vecchi discorsi.

 

interpol guns

Il pubblico degli Editors e quello dei Cult, facilmente distinguibili

 

C’è il contrasto tra i due concerti: ma su quello piuttosto monocorde e hard-rock vecchio stile dei Cult non vorrei soffermarmi troppo, sapevo che si trattava di un gruppo valido che frequenta un genere “poco nelle mie corde” (stesso eufemismo che uso per Guns n’ Roses e altre band che si collocano più o meno all’opposto della mia concezione di rock), il live non ha fatto che consolidare questa impressione. Un consolidamento durato un’interminabile ora e mezzo.

C’è la scaletta bella ed equilibrata (la vetta a mio parere il trittico Ocean of Night/All the Kings/The Racing Rats); ci sono i pezzi nuovi molto belli e ci sono alcuni pezzoni di inizio carriera (Munich, Blood) suonati e cantati a inizio set senza troppa grinta, a ennesima dimostrazione di quanto, complici anche i cambi in lineup, la band abbia ormai da tempo intrapreso (non senza retromarce incoerenti) una direzione molto diversa da quella degli esordi.

C’è Tom Smith – ho avuto modo di raggiungere le primissime file e osservarlo a lungo. Anche qui se ne potrebbe fare un post a parte. Buona prova vocale a parte (soprattutto a voce più scaldata, da metà live), come frontman “funziona” per il suo essere “normie” e patatone e allo stesso tempo esuberante, anche tanto: però non c’è lascivia nel suo danzare e darsi al pubblico ma un’eleganza naturale, non forzata. Per fare due nomi musicalmente non casuali, non fa il Curtisfa il Gahan (che noia la retorica del “tutt* se lo farebbero” ritirata fuori come commento a tutti i live dei Depeche, peraltro). Potrei addirittura giocarmi la pericolosa parola “autenticità” per l’effetto di insieme.

tom smith

Il motivo centrale per cui ho amato questo (non certo perfetto) live, quello che mi ha dato la voglia per scrivere questo post-di-social poi trasformato in post-di-blog (mica cosa da poco, dopo tutto questo tempo), è però un altro.
La retorica del concerto come rito collettivo è vecchia quanto la musica rock, più o meno, ed è ormai piuttosto trita. Tra i motivi per cui ormai da tempo preferisco decisamente vivermi concerti medio-piccoli e faccio eccezioni rare (un altro motivo è quello economico, certo) è che invece per me spesso vale il contrario. Io di base non la cerco l’esperienza collettiva. Se l’elemento del “perdersi nel mare umano” o in un pubblico di anime affini qualche volta mi ha toccato, in realtà per molti dei concerti che mi hanno coinvolto di più negli anni è valso proprio il meccanismo opposto. Il live cioè che ti dà tanto proprio perché ti fa sentire più isolato, diverso, lontano che mai: lontano dagli amici con cui sei andato o che hai trovato al concerto, lontano dai puristi che amavano soltanto i primi dischi o il demo, lontano da chi va a troppi concerti o da quelli per cui è l’unico concerto dell’anno (ma come si può…), lontano dalle persone che spintonano e da quelle che protestano per gli spintoni, lontano da chi si agita troppo e da chi non si lascia andare MAI, lontano dai tanti che riprendono con smartphone dalla fotocamera troppo perfetta mentre tu ti accontenti di quelle due foto con ombre colorate rubate però in quel momento lì. Lontano anche da chi si commuove come te, perché gli anni te l’hanno insegnato: certe sensazioni viaggiano su binari separati, destinati ad allontanarsi subito dopo gli eventuali incroci fortuiti di sguardi.
Quel tipo di live che insomma amplifica i mille gradi di solitudine e di senso di vuoto della tua intera esistenza e in qualche modo li concentra simbolicamente nel tuo sentirti solo in quel momento lì – un meccanismo catartico che va in direzione diversa (forse solo apparentemente diversa) da quella del “rito collettivo”. Dopo averti ricordato che quel vuoto c’è, la musica lo riempie anche un po’, per fortuna. È un momento in cui vien da pensare che, forse, ci si può anche convivere. Mica roba da poco.
Di certo il live di stasera degli Editors non è stato *questo* nella sua interezza. Però qualche momento così l’ha avuto. Quasi non me l’aspettavo, e anche grazie a ciò da oggi ai loro dischi vorrò un po’ più bene di quanto gliene volevo già.

PS. Non c’entra veramente nulla con il resto del post, ma da domani (tra poche ore per chi legge) metterò musica con il mio djset Outsiders (stavolta in coppia) al benemerito Lars Rock Fest di Chiusi (SI), che ospiterà in tre giorni di concerti a ingresso gratuito gruppi come Gang Of Four, Austra e Public Service Broadcasting. Già c’ero stato l’anno scorso nella serata dei canadesi Suuns ed era stato bellissimo, quest’anno non vedo l’ora di buttarmi nella tre giorni intera.
Non c’entra con il resto del post, dicevo, però uno a parte non ho tempo di farlo e non potevo proprio “riaprire” il blog senza lasciarci un ricordo (chissà mai quando arriverà il prossimo post!) della più grande soddisfazione djistica in anni di battaglie e frustrazioni varie all’interno di una scena musicale toscana come dire, discutibile.

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