Le Sorelle Marinetti – Non ce ne importa niente

Le Sorelle Marinetti: Non ce ne importa niente (P-Nuts, 2008)

Non ero certo privo di scetticismo quando per la prima volta mi è capitato tra le mani il cd de Le Sorelle Marinetti (peraltro uscita non recente; ma il relativo, lungo tour non è ancora terminato). Il trio, già noto agli spettatori di Gennaro Cosmo Parlato, propone infatti nel suo esordio un repertorio di brani swing portati al successo a cavallo degli anni 30 e 40 del secolo scorso da gruppi vocali come il Trio Lescano o cantanti come Silvana Fioresi e Wanda Osiris. Insomma, sentivo puzza di Puppini Sisters (il cui primo disco è uno di quelli che più mi ha irritato negli ultimi anni, le poche volte in cui sono riuscito a terminarne l’ascolto sveglio). Niente di più sbagliato. Non ce ne importa niente è un’operazione radicalmente diversa (quasi tutti brani d’epoca, rivisitati con rigore filologico) e si è rivelato ascolto stimolante e gradevole. Merito della validissima big band che accompagna MercuriaTurbina e Scintilla rievocando i fasti musicali dell’epoca EIAR; della genialità (da riscoprire) dei parolieri dell’epoca, che infilavano allusioni-tabù (Ma le gambe) e proclami anticonformisti (La gelosia non è più di moda) in brani all’apparenza borghesi e innocenti (sì, quella bella canzone di una volta che “dopo un po’ la sa tutto il quartiere”); e ancora delle piacevoli armonizzazioni vocali delle Sorelle Marinetti e della loro interpretazione, insieme rispettosa e giocosa come si suppone essere su di un palco. In questo senso probabilmente aiuta il dettaglio fin qui non esplicitato: le signorine sono tre simpatiche drag queen. Valeva la pena di ricordarlo solo alla fine, perché il disco non punta affatto tutte le sue carte sull’elemento “teatrale”: il che giova senz’altro anche alla sua longevità.

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le “prove” di Camminando sotto la pioggia
Tulipan ripresa in una loro esibizione teatrale

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Secret Machines – Secret Machines

Secret Machines: Secret Machines (TSM Recordings & World’s Fair/Cooperative Music, 2008)

Il combo newyorkese (ma texano d’origine) dei Secret Machines giunge al terzo album dopo l’avvicendamento tra il co-fondatore Benjamin Curtis (che nel 2007 ha deciso di dedicarsi a tempo pieno al progetto decisamente più soft School of Seven Bells) e il nuovo chitarrista Phil Karnats, che si unisce al batterista Josh Garza e all’altro fratello Curtis, Brandon (basso/tastiere/voce). Con Secret Machines non ci sono comunque grosse deviazioni dal percorso intrapreso finora: il suono è sempre robusto e sferzante, uno space rock pienamente anni zero che alterna o miscela reminescenze wave ed elementi math-rock, senza vergognarsi di richiamare occasionalmente il Bowie più ruvido e “tedesco” (Have I Run Out) o i Pink Floyd più lunari (nel senso di lato oscuro della). Quasi tutti i brani riescono a svelare con gli ascolti la loro dimensione di “canzone” nonostante le divagazioni ritmiche e il minutaggio spesso elevato, e il tutto senza quasi mai ricorrere a trovate “facili” (la deriva stadium rock parzialmente imboccata con il precedente Ten Silver Drops pare abbandonata). La prima parte dell’album si fa preferire per varietà e tiro (su tutte spicca Last Believer, Drop Dead), mentre la seconda è caratterizzata da tempi più dilatati (pure troppo, gli 11 minuti della traccia finale The Fire is Waiting sono strettamente consigliati ai fanatici della psichedelia) e da qualche cedimento (il romanticismo un po’ stantìo di Now You’re Gone). Il punto debole di Secret Machines non sta però negli incidenti di percorso, né nella mancanza di idee (che ci sono), né tanto meno nell’eccessiva varietà di influenze (sempre ben rielaborate). È che quando si va alla ricerca di un suono più strutturato e meno magmatico (questa è l’impressione), gli effetti speciali e la tecnica non bastano, bisogna mettere in campo canzoni con un pizzico di anima in più. Altrimenti si resta con un disco come questo: tecnicamente apprezzabile, ma che anche alla lunga lascia piuttosto freddi (per quanto nei confronti degli appassionati del genere una certa freddezza di fondo potrebbe non costituire affatto un problema).

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il video di Atomic Heels
i Secret Machines backing band di Bono in I Am The Walrus (dalla colonna sonora di Across the Universe)

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VV.AA. – Life Beyond Mars: Bowie Covered

VV.AA.: Life beyond Mars – Bowie Covered (Rapster/Audioglobe, 2008)

Una carriera come quella di David Bowie non ha bisogno di presentazioni, e vista l’influenza pluridecennale e trasversale del personaggio è teoricamente possibile allestirne tributi pescando nelle scene più disparate (dal glam-pop all’elettronica, dal cantautorato rock all’industrial). Stavolta ci prova l’etichetta tedesca Rapster (sussidiaria !K7), reduce dai successi ottenuti con analoghe compilation dedicate a Radiohead e Prince: per questo Life Beyond Mars – Bowie Covered gli artisti scelti spaziano tra indietronica, house e avant-pop. Il risultato è un disco vario e compatto allo stesso tempo, dall’effetto fresco e avvolgente come quello di un mixtape sapientemente confezionato: apertura delicata a creare atmosfera (la dolce Oh! You Pretty Things delle Au Revoir Simone, solo voci e organo) e poi ritmo che si fa più sostenuto, con le doverose pause di riflessione e un repertorio che alterna classici e brani meno noti, provenienti da vari periodi della carriera del Duca Bianco (leggera prevalenza per quello berlinese). Il miglior complimento che si può fare a buona parte di queste cover è che sarebbero perfettamente credibili come rielaborazioni dei propri brani a opera di Bowie stesso (uno che di generi musicali ne ha esplorati): sia quando i pezzi sono efficacemente trasfigurati in chiave dance (i beat di Loving the Alien degli Heartbreak, la cassa di Carl Craig in Looking for Water), sia quando vengono spogliati dell’originaria veste di glam-rock pianistico in favore di nuovi arrangiamenti e atmosfere (la schizofrenia della deliziosa Ashes to Ashes dei Leo Minor, l’introspezione di Be My Wife a cura di Richard Walters & Faultline, il minimalismo della Sweet Thing di Drew Brown). Non mancano rivisitazioni più convenzionali ma sempre piacevoli (Sound & Vision di Matthew Dear), mentre poche sono le tracce evitabili (Life on Mars in versione musica sperimentale appare un po’ delittuosa e fuori contesto). Un disco forse non indispensabile per chi non è appassionato di Bowie *e* di elettronica, ma che con gli ascolti cresce e non stufa: a un tributo non si può chiedere molto di più.

Visita il sito della Rapster Records

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zZz – Running With The Beast

zZz: Running With The Beast (Anti-/Self, 2008)

Chissà se il duo olandese formato da Björn Ottenheim (voce e batteria) e Daan Schinkel (organo/synth) ha scelto il nome zZz allo scopo di scalzare gli ZZ Top dall’ultima posizione in scaffali e cataloghi di dischi. Quella proposta in Running with the Beast (secondo album, che segue a quasi quattro anni di distanza l’esordio Sound of zZz) è comunque una musica di tutt’altro genere, vintage e attualissima allo stesso tempo, con tutte le carte in regola quindi per imporsi all’attenzione di hipster e filologi. È incredibile come questi due fricchettoni riescano, con la ridotta strumentazione di base unita a qualche effetto elettronico, a costruire un suono così pieno e diversificato: nei quasi tre quarti d’ora di Running with the Beast si passa da brani come Lover e Sign of Love, che danno al “new rave” quell’anima e quell’attitudine punk che non ha probabilmente mai avuto (se mai il genere è esistito), alle atmosfere dark-wave di Amanda e Angel (quest’ultimo un pezzone epico pronto a diventare un classico dei djset a tema); c’è anche spazio per richiami episodici agli Arcade Fire più nervosi (Majeur) e agli Happy Mondays più lisergici (The Movies). Nel suo nucleo essenziale però il “sound of zZz” pare un’ibrido riuscito tra le cavalcate ipnotiche di Suicide e Bauhaus (il timbro di Ottenheim ricorda sia Peter Murphy che Ian Curtis) e la sperimentazione un po’ fighetta di gruppi come i Battles. E il singolo Grip, reso celebre in questi giorni dallo spot di una casa automobilistica delle nostre parti, sembra in effetti una versione “normalizzata” di Atlas (ma non si tratta del pezzo migliore del lotto). Per chi frequenta i suddetti sentieri musicali l’ascolto di questi 11 pezzi può rivelarsi inebriante, grazie alla loro immediatezza (è un album decisamente più pop del precedente), all’energia sprigionata e alla mancanza di riempitivi (di quanti dischi si può dire lo stesso, al giorno d’oggi?). La sensazione è che il pubblico potrebbe apprezzare molto più della critica, e tirar fuori spesso il cd dal fondo dello scaffale. Insomma, last but not least.

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il video di Grip
Running with the Beast in un’indiavolata versione dal vivo
free download di Ecstasy dal precedente Sound of zZz

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The Cure – 4:13 Dream

The Cure: 4:13 Dream (Geffen/Universal, 2008)

Dopo l’imbarazzante self-titled del 2004 l’interesse attorno alle nuove produzioni discografiche dei Cure era forse calato ai minimi storici. Ma Robert Smith non demorde: via il produttore nu metal Ross Robinson, fuori Bamonte e O’Donnell, dentro (di nuovo) l’aggressiva chitarra di Porl Thompson. Con 4:13 Dream (tredicesimo l’album, 13 le tracce totali, 4 i singoli apripista pubblicati il 13 di ogni mese!) si torna al pop chitarristico di inizio anni ‘90, anche se non mancano richiami all’epoca Disintegration o ancora precedente. Dall’apertura splendida e dreamy (appunto) con Underneath the Stars fino alla paranoica The Scream e all’indiavolata It’s Over che chiudono è una summa, con qualche ritocco di make-up e rossetto sbafato a evitare l’effetto-fotocopia, del sound dei Cure più maturi: il tutto attraverso brani tutti dignitosi pur senza picchi, neanche nei singoli (The Only One è carina ma prevedibile, Sleep When I’m Dead e Freakshow non trascinano come nelle intenzioni, e nella seconda l’assolo continuo in sottofondo infastidisce). Roba che difficilmente si farà strada negli ascolti di chi non ha la musica di Smith & soci nel sangue (e magari preferirà rivolgersi alle miriadi di giovani cloni). Chi invece è cresciuto a pane burro e Just Like Heaven forse si avvicinerà a 4:13 Dream con pigrizia, ma se metterà da parte le aspettative di suoni forzatamente cool o di improbabili evoluzioni compositive (i testi pescano dal solito immaginario da eterna adolescenza) sarà lentamente conquistato: come chi torna a casa e si commuove nel riabbracciare per alcuni giorni antichi luoghi e odori, con l’iniziale sensazione di déjà vu che lascia spazio a quella di appartenenza e pacificazione. Se pure nel 2008 non ha senso limitarsi all’ascolto di dischi simili, a uno Smith in questa forma ogni tanto si tornerà sempre a far visita volentieri.

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i video di The Perfect Boy e Sleep When I’m Dead

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Jolie Holland – The Living And The Dead

Jolie Holland: The Living And The Dead (Anti-/Self, 2008)

Se la ascolti per la prima volta senza averla mai vista, la texana giramondo Jolie Holland (beniamina di Tom Waits, già co-fondatrice a Vancouver delle The Be Good Tanyas) te la immagini proprio come nel video della delicata Mexico City: il vestito estivo e svolazzante, i capelli scompigliati dal vento, le smorfie mentre cammina nel deserto con una chitarra in braccio. E te la immagini cantare le canzoni del suo quarto album The Living And The Dead scandendo bene le parole, con un lieve sorriso velato di malinconia. Rispetto alla precedente produzione della Holland, più vicina alla tradizione folk-blues-americana, il suono di buona parte di queste canzoni risulta arricchito e accattivante anche per un pubblico più “rock”, grazie alla chitarra degli ospiti Marc Ribot e M. Ward (che comunque si integra sempre dolcemente e senza invadenza nei pezzi): degne di nota in particolare Palmyra, la romantica Your Big Hands e The Future. Si tratta comunque di un album delizioso se preso a piccole dosi, un po’ perché non mancano brani che al contrario esasperano il concetto di “essenziale” (i traditional Love Henry ed Enjoy Yourself piazzati in coda alla scaletta), un po’ perché, anche ove il mix risulta ottimamente riuscito, alla lunga il cantato e il songwriting della Holland rischiano di varcare il sottile confine tra “ineccepibile” e “perfettino”. Tutte considerazioni che valgono, va detto, soprattutto per l’ascoltatore che poco frequenta il genere.

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il video di Mexico City e una versione casalinga chitarra+voce
una versione dal vivo di Your Big Hands (Londra, St.James Church)

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The Sound Of Animals Fighting – The Ocean And The Sun

The Sound of Animals Fighting: The Ocean and the Sun (Epitaph/Self, 2008)

Il titolo è The Ocean And The Sun, ma in realtà l’ascolto di questo album ti sprofonda in atmosfere terrigene e ancestrali, molto più vicine all’inquietante foresta della copertina e all’altrettanto evocativo nome del combo che lo presenta: The Sound of Animals Fighting. Si tratta del tipico progetto parallelo sperimentale (buona parte del nocciolo duro del gruppo consiste in membri o ex membri dei californiani RX Bandits), con tanto di parti in studio registrate separatamente e assenza di tour promozionali. Ogni componente e ospite dello strambo collettivo si nasconde dietro il nome di un animale: con questo terzo album si sbarca su Epitaph e i ranghi sono ridotti (con poche eccezioni, tra cui alcune vocalist) a un quartetto composto da “Tricheco”, “Lince”, “Puzzola” e “Usignolo” (il dominus del progetto Rich Balling). Non si sa quanta ironia ci sia nella scelta delle bestiole (ci sono pure le maschere!), ma senz’altro la musica proposta ha poco di leggero e disimpegnato: un’intro recitata in farsi, la title track con il suo sapore etnico, poi le chitarre che prendono lentamente la scena per spaventare, stupire e non lasciarla praticamente più. Un “prog-hardcore” insieme tecnico e rabbioso che ricorda spesso i Tool, arricchito da convulsi episodi elettronici (Uzbekistan) e da intermezzi tribali o rumoristici. Cinquanta minuti di furia degli elementi, fantasmi, lingue esotiche, citazioni letterarie: non troppo accessibile né rassicurante. Se fosse un film, non sarebbe una sapida commedia indipendente da Sundance pronta per finire negli articoli di costume di mezzo mondo, ma un action-movie darkeggiante e ottimamente costruito, che non sbancherebbe al botteghino solo per la mancanza di supereroi o di grandi nomi nel cast. Ma che forse per qualcuno sarebbe un gran peccato perdersi.

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il commento al disco del leader “The Nightingale” traccia per traccia e un lungo articolo-intervista su Rock Midgets

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Silver Ray – Homes For Everyone

Silver Ray: Homes for Everyone (Broken Horse/Goodfellas, 2008)

Silver Ray sono un trio di Melbourne composto da Cam Butler (chitarra), Brett Poliness (batteria) e Julitha Ryan (piano). Anche in Homes for Everyone (quarto album, per il quale hanno abbassato il minutaggio dei brani a livelli più vicini al formato-canzone) i tre australiani propongono una sorta di post-rock completamente strumentale, dalle atmosfere in gran parte rilassate e cinematiche (aggettivo di cui si abusa decisamente nei loro riguardi, ma quanto mai centrato). Persino i tempi discografici della band sono lunghi e rilassati, in effetti – il disco precedente è del 2004, e in omaggio a tale filosofia “slow” anche questo post arriva con un certo ritardo sull’uscita. L’approccio immediato a questi dieci brani, privi di grosse cadute di tono, è positivo anche per chi come me non frequenta troppo la musica strumentale (”però, c’è vita anche oltre la struttura strofa-ritornello-bridge!”). Alla lunga tuttavia spiace constatare come lungo i 45 minuti di Homes for Everyone scarseggino anche i sussulti e momenti da ricordare: c’è il promettente incipit You Know The Truth, la morriconiana Trail of Deception e poco altro, e i brani più pianistici in particolare sembrano avvitati su se stessi e poco coinvolgenti. Non aiuta troppo neanche l’arricchimento sporadico del suono a tre strumenti della band, con l’innesto di archi e synth (questi ultimi anzi in Prove It, Don Quixote! risultano lievemente disturbanti). Liquidare quest’album come una versione rock di Allevi sarebbe però ingeneroso: forse per apprezzarlo ci vuole semplicemente qualcuno un po’ più innamorato del virtuosismo e dell’”atmosferismo”.

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il sito della Broken Horse Records

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Jaguar Love – Take Me To The Sea

Jaguar Love: Take Me To The Sea (Matador/Self, 2008)

Jaguar Love sono il nuovo gruppo di Johnny Whitney – la voce più acuta e “screamo” dei disciolti Blood Brothers – e del chitarrista della stessa band Cody Votolato, con il sostegno (alla batteria e non solo) dell’ex Pretty Girls Make Graves Jay Clark. L’impatto con il loro esordio Take Me to the Sea è letteralmente traumatico: rispetto all’esperienza con i più ruvidi Blood Brothers la vocalità di Whitney è protagonista assoluta e invadente delle canzoni, svaria senza più freni dal falsetto al rantolo, sempre all’insegna della mancanza di sobrietà. L’istinto di mollare il colpo al primo ascolto in preda al disgusto è forte. E invece succede che in poco tempo buona parte di quei dieci pezzi art-emo-punk, stralunati e selvaggi eppur dotati di un inaspettato piglio pop, ti si appiccicano addosso: è il caso di episodi eterogenei come la secca Bats over the Pacific Ocean, l’esercizio At The Drive-In di Vagabond Ballroom, l’emo-anthem Humans Evolve into Skyscrapers e lo struggente pezzone alla White Stripes Georgia (dal finale spettacolare: il nuovo po-po-po?). La conclusiva My Organ Sounds Like… è il miglior compendio di pregi e difetti del combo di Portland: ottime potenzialità melodiche e compositive, ma anche dissonanze ed esagerazioni vocali gratuite e indigeste. Come quegli amici con cui riesci a lasciarti andare e sentirti vivo fin nel midollo, ma che allo stesso tempo ti mettono terribilmente a disagio, con quello sbatterti continuamente in faccia un lato imbarazzante che è anche tuo. Ecco: Take Me to the Sea potrebbe concorrere a un ipotetico premio di disco bello più imbarazzante o di disco preferito da nascondere del 2008.
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il video di Highways of Gold
il video di Jaguar Pirates
free mp3 di Bats over the Pacific Ocean dal sito della Matador

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Absentee – Victory Shorts

Absentee: Victory Shorts (Memphis Industries/Cooperative Music, 2008)

Segue le nuove tendenze mantenendo un certo snobismo di fondo; non si è mai davvero disintossicato dal britpop anni 90; ama i testi taglienti e le voci basse, profonde e un po’ ubriache. Questo potrebbe essere l’identikit dell’ascoltatore medio degli Absentee, quintetto londinese al suo secondo album. In effetti i dieci pezzi diVictory Shorts sono inglesi fino al midollo, nello spirito e nella forma. Di gruppi come i Pulp si ritrova sia l’eleganza dei lenti (Love Has Had His Way..) sia il gusto per il brano pop d’impatto ad alto voltaggio. Ma se i due singoli Bitchstealer e Boy, Did She Teach You Nothing? sono la ciliegina che invoglia ad approfondire, dopo qualche ascolto l’intero album rivela un certo fascino, anche a chi non impazzisce per il timbro di Dan Michaelson (pensate a Matt Berninger dei National alle prese con il repertorio di Jarvis Cocker: l’effetto immediato non è dei più rassicuranti): sarà per l’amaro romanticismo delle melodie e le spruzzate di humour nei testi; sarà per il fondamentale contrappunto della tastierista Melinda Bronstein nei cori (a rendere l’insieme di volta in volta più dolce o più sbarazzino); sarà per la personalità della band, che prevale sui suoi aspetti più modaioli (vedi appunto il duetto tra le due voci, che ultimamente si porta molto); sarà soprattutto per alcuni pezzi che alla distanza si rivelano tra le cose migliori (Spitting Feathers, con il suo sofisticato crescendo). Del resto, forse il complesso di inferiorità di tanti verso i gruppi pop d’oltremanica non è dovuto solo a una nostalgia un po’ turistica e provinciale per il West End e i bus a due piani, ma anche al fatto che di dischi come questo l’Inghilterra ne sforna ogni anno diversi. Per fortuna.

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il video di Bitchstealer
il video di Boy, Did She Teach You Nothing?

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The Primary 5 – High Five

The Primary 5: High Five (Neon Tetra/Goodfellas, 2008)

Sembra la perfetta “favola indie pop”: un musicista (lo scozzese Paul Quinn) che abbandona una solida carriera come batterista, comprendente una permanenza di qualche anno nei Teenage Fanclub (oltre a quella nei Soup Dragons), per un lavoro “normale” (postino); ma poi ci ripensa e si ributta nella mischia, cimentandosi per la prima volta con canto/composizione/chitarra e dando vita a un progetto tutto suo, The Primary 5. Ne vengono fuori tre album in quasi altrettanti anni, che ottengono un buon riscontro di critica pur senza mai “svoltare”: l’ultimo è questo High Five, in cui Guinn rimedia all’addio dei compagni d’avventura originari con l’aiuto di vecchie e nuove conoscenze a basso, chitarra elettrica e produzione (tra gli altri figurano nei credits Andy Bell degli Oasis e i Teenage Fanclub Blake e McGinley). Il risultato è una mezzora di indie-pop da manuale, in cui riecheggiano la tradizione britannica e scozzese in particolare (in primis l’ex gruppo di Guinn), ma anche il pop byrdsiano e cesellato degli Shins (sua icona dichiarata). Canzoni semplici dagli accordi carezzevoli, finte sfuriate elettriche a scuotere ogni tanto (Lost and ConfusedRewind), melodie struggenti (So Much to Find) o semplicemente nostalgiche (I Wonder Why). Dieci pezzi fuori dal tempo da riascoltare senza stancarsi, per quello che è uno degli ascolti più piacevoli del 2008, alla faccia della formula abusata. Ma quelle indie pop sono sempre favole dolci-amare: neanche il tempo di apprezzare High Five che già Paul Guinn sul suo myspace annuncia il capolinea del gruppo. È contento così, dice. Beh, anche chi scrive è contento e ringrazia (mentre rimette il disco daccapo, di nuovo).

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Liz Durrett – Outside Our Gates

Liz Durrett: Outside Our Gates (Warm/Goodfellas, 2008)

Giunta alla terza prova, la folksinger di Athens Liz Durrett già nota come nipote-di-Vic-Chesnutt sfodera un album maturo e convincente, che potrebbe assicurarle un futuro in cui le parentele non siano più la prima informazione da accostare al suo nome. Quello di queste 11 tracce è un indie-folk intenso che ha nel binomio voce-chitarra la sua base, anche se la strumentazione di contorno non manca – ospiti vari membri della fertile scena musicale della città della Georgia, zio Vic alla chitarra in testa ovviamente. Su tutto domina la voce della Durrett, che per timbro e profondità può sembrare una Sinéad O’Connor reincarnatasi nel profondo sud degli Stati Uniti e alle prese con le cose più folk e asciutte dei Decemberists (mentre la vicinanza con Cat Power spesso tirata in ballo in passato è più geografica che altro). La varietà di arrangiamenti conferisce all’album diversi colori e atmosfere: si va dalle ballate minimali alle marcette, dai pezzi solari a quelli drammatizzati da un riff acido o dagli archi. Conquistano subito in particolare l’angosciante Wake To Believe che apre, la ninna nanna di The Sea A Dream in chiusura, ma soprattutto le due dolci confessioni a cuore e polmoni aperti di We Build Bridges (con Chesnutt come seconda voce) e All Of Them All. In Not Running, piccola gemma acustica, Liz canta “Not hiding, we are unashamed…not running, we are unafraid”. E c’è da ringraziarla per questo lasciarsi andare: il mezzo digitale è a tratti abbattuto, e soprattutto in questi pezzi la sua voce ci arriva limpida e pura con tutto il suo carico di emozioni. Quando l’inverno è rigido, l’umore a terra e fuori piove (ancora), ascoltare canzoni come queste può bastare a star meglio.

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l’mp3 di Wild As Them dal sito ufficiale
Not Running eseguita dal vivo con Vic Chesnutt

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The Killers – Day & Age

The Killers: Day & Age (Island/Universal, 2008)

Da queste parti nei confronti di Day & Age, terza prova in studio dei Killers, non si era particolarmente prevenuti. Con la produzione affidata a “Mr.Confessions on a Dancefloor” Stuart Price c’erano da aspettarsi un disco più synth-pop che mai, un allontanamento dalle suggestioni springsteeniane di Sam’s Town e un riavvicinamento alle sonorità dell’esordio Hot Fuss (secondo il copione tesi-antitesi-sintesi seguito da molte band), con qualche ingrediente “fresco” in più. Con del buon materiale di base Brandon Flowers e soci avrebbero potuto sbancare. L’ascolto di queste 10 canzoni invece delude: c’è un primo singolo dance-pop gradevole e atipico comeHuman, una Spaceman all’altezza delle migliori hit (anche se a tratti la sensazione di pilota automatico c’è), un altro paio di pezzi da salvare (con più calore la toccante A Dustland Fairytale, mentre la traccia d’apertura Losing Touch è un po’ troppo retorica). Poi, il disastro: coerentemente coi temi delle liriche (di qualità pure altalenante), è un bad trip in una Las Vegas decadente e stantìa, con prostitute disilluse che si agitano al suono di tristi scarti dei Duran Duran piùfunky-tarri (Joy Ride, purtroppo non una cover dei Roxette), lounge club pseudo-raffinati per businessmen in rovina in cui risuonano improbabili ritmi caraibici (I Can’t Stay), mega-concerti al casinò di un tronfio Bono Vox solista (il suo vocalizzo gigioneggiante sembra affiorare in più brani). Si chiude con un lamento funebre di 7 minuti, in linea con le previsioni sulla carriera dei Killers. Il loro peggior disco. Finora.

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il video di Human

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Wild Beasts – Limbo, Panto

Wild Beasts: Limbo, Panto (Domino/Self, 2008)

Difficilmente moniker scelto e musica proposta si sposano alla perfezione come per i Wild Beasts. L’esordiente quartetto inglese, che ruba il nome a un’avanguardia espressionista di inizio Novecento (i Fauves, “bestie feroci” in francese), presenta infatti in Limbo, Panto10 pezzi tanto vividi quanto scioccanti. Il loro è un art-rock chitarristico ma mai muscolare, incredibilmente raffinato per l’età media (poco più di ventanni) e personale nonostante le influenze più varie affioranti qua e là (dal glam alla disco, dall’alt-pop contemporaneo a certe sperimentazioni di Kate Bush fino ai Queen più freak). Ma a sorprendere di più è la voce di Hayden Thorpe: un monstrum che per timbro e stile che richiama di volta in volta Mika, Matt Bellamy ed Antony (anche nello stesso pezzo!), con ricorso continuo al falsetto. È questo al tempo stesso l’elemento più affascinante e il potenziale punto debole dell’album. L’ingombrante performance vocale del leader rischia infatti di “mangiarsi le canzoni”, le quali nonostante arrangiamenti e idee pregevoli (le svolte ritmiche, i cori, i testi dal lessico colto e pieni di allitterazioni) richiedono pazienza e attenzione nell’ascolto e avrebbero probabilmente tratto beneficio da un cantato più accattivante e immediato (con le dovute eccezioni, come Brave Bulging Buoyant Clairvoyants). Non a caso tra i pezzi più accessibili ci sono i 2 in cui la voce principale è quella elegante, più bassa e meno istrionica del bassista Tom Fleming (His Grinning Skull, il singolo The Devil’s Crayon). È soprattutto lì che si riesce ad andare oltre una sterile ammirazione cerebrale per l’originalità compositiva della band di Kendal (comunque una boccata d’aria fresca in un panorama discografico che propone emuli a getto continuo) e lasciarsi “impressionare” dalla sua musica – che era poi lo scopo dichiarato fin dalla scelta del nome, no?

myspace e sito ufficiale
i video di The Devil’s CrayonBrave Bulging Buoyant Clairvoyants e del precedente singolo (non incluso nell’album) Assembly

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Kaiser Chiefs – Off With Their Heads

Kaiser Chiefs: Off With Their Heads (Polydor, 2008)

I want to retire“, “I’ll leave the party in style“: nel 2007 Ricky Wilson chiudeva così (inRetirement) il secondo album dei Kaiser Chiefs. Ecco, ascoltando l’opera terza Off With Their Heads ci si rammarica quasi del mancato seguito a quell’ironica promessa. E dire che l’inizio promette bene: il breve pasticheSpanish Metal (riff hard-rock epici a creare un effetto-kitch voluto e divertente) è un’ottima intro; mentre il singolo Never Miss a Beat, tiro micidiale e ritornello ripetitivo ma irresistibile, rivaleggia con le hit di Employment. Il tentativo di tornare alla felice formula dell’esordio (una versione anabolizzata e de-intellettualizzata dei Blur più yè-yè) si avverte a tratti anche nei brani successivi, ma con risultati perdenti anche nel confronto con il bistrattato e più muscolare Yours Truly, Angry Mob. In realtà le melodie pop canticchiabili già dopo due ascolti (marchio di fabbrica del gruppo di Leeds) ci sono anche stavolta, ovunque. Solo che giunti al terzo ascolto si avverte già una sensazione di stantìo – non si sa quanto per impasse compositiva e quanto a causa della produzione rileccata di Eliot James e Mark “prezzemolino” Ronson (ancora tu: ma non dovevamo vederci più?). Sopra la media la sincopataHalf The Truth (nonostante un improbabile inserto rap!) e la delicata Tomato In The Rain: per il resto si va dall’insipido al già sentito (in Always Happens Like Thati cori sono di Lili Allen, ci dicono: yawn). Probabilmente ben altri gruppi dovrebbero “ritirarsi” prima dei Kaiser Chiefs. Ma il consiglio per il prossimo disco è, parafrasando l’unico pezzo che di questo resterà, “take a look on Stephen Street”, e richiamare il vecchio produttore di corsa. Oltre a proporre pezzi migliori.

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il video di Never Miss A Beat

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Eugene McGuinness – Eugene McGuinness

Eugene McGuinness – Eugene McGuinness (Domino/Self, 2008)

Del giovane singer-songwriter inglese Eugene McGuinness (origini irlandesi, natali a Londra, studi universitari e attuale residenza a Liverpool) si era cominciato a parlare un anno fa, dopo l’uscita del mini album The Early Learnings of…e il successo del delizioso singolo Monsters under the Bed. Se già le 8 tracce datate 2007 avevano mostrato una discreta maturità in rapporto all’età (classe 1985), le 12 composizioni di questo esordio vero e proprio dal fantasioso titolo Eugene McGuinnessconvincono per realizzazione e varietà. A pesare negativamente sull’accoglienza riservata a McGuinness potrebbe esserci, va premesso, la scarsa attenzione iniziale da parte di quanti non impazziscono per certo cantautorato-rock britannico (il suo stile, pur mantenendosi fresco e personale, ricorda a tratti Kinks, Weller e Billy Bragg). Inoltre se la versatilità della voce, l’arguzia dei testi e la cura nella produzione si notano subito, così come la scioltezza nei passaggi da un registro all’altro, i brani ci mettono un po’ a carburare davvero e suscitare empatia. Dopo qualche ascolto però è impossibile non apprezzare almeno qualcuna di queste canzoni: personalmente mi diverto a battere il piedino sulle brevi e ficcanti Fonz eNightshift (che preferisco al comunque gradevole singolo apripista Moscow State Circus), mentre tra gli episodi più rilassati spiccano a mio parere Knock Down Ginger e Atlas, per delicatezza del cantato e soluzioni nell’arrangiamento. Qualche pezzo continua a ispirarmi meno (le strascicate ballads Those Old BW Movies… eGod in Space, la stessa scatenata Rings Around Rosa che apre il lotto), e nel complesso non posso dire di esser stato folgorato da questo disco: ma bisogna ammetterlo, “il ragazzo gioca bene” e va senz’altro tenuto d’occhio.

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il video di Moscow State Circus e quello di Monsters under the Bed (il singolo del 2007)

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Bloc Party – Intimacy

Bloc Party: Intimacy (Wichita, 2008)

Il controverso singolo Mercury (a tratti respingente anche dopo molti ascolti) faceva temere il peggio per il terzo album dei Bloc Party. Invece, sorpresa: con le sue 11 tracce (alle 10 già uscite in versione digitale ad agosto si aggiunge ora il secondo singolo Talons), Intimacy è probabilmente quel seguito che Silent Alarm avrebbe dovuto avere subito. Un album con una maggioranza di brani ritmati, che abbandona il percorso verso il rock da stadio intrapreso con il deludente A Weekend In The City, per riproporre invece l’energia e gli assoli indiavolati dell’esordio. L’uso crescente dell’elettronica evita il déjà vu nei brani più chitarrosi (diversi i potenziali eredi diHelicopter sulle piste), e arricchisce anche gli unici 3 che fanno rifiatare (prescindibili ma in media dignitosi: del resto, quanti amano il gruppo di Kele Okereke per le ballads?); nel finale del disco, poi, synth e basi prendono sempre più piede. L’amarezza dei testi, principalmente centrati su lutti e amori finiti (l’intimacy del titolo), ben si sposa con la musica – e stavolta Kele ci risparmia le citazioni di foie gras e sudoku sentite in Weekend. Pur con qualche momento imbarazzante (i cori misticheggianti di Zephyrus) o involuto (i 2 esperimenti iniziali à la Prodigy), nel complesso il disco cresce con gli ascolti, e se farà di nuovo storcere il naso a molta critica, che forse cerca nei Bloc Party una raffinatezza che non hanno mai avuto (neanche nell’ottimo Silent Alarm), piacerà più del precedente a chi ama il gruppo e l’adrenalina che sprigiona. Il prossimo album, se ben meditato, potrebbe offrire di più.

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il video di Talons

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Friendly Fires – Friendly Fires

Friendly Fires – Friendly Fires (XL, 2008)

C’era bisogno, a fine 2008, dell’avvento di un ennesimo gruppo punk-funk? Se risponderete d’istinto NO! a questa domanda, probabilmente delle due l’una: onon avete ancora ascoltato l’omonimo album di esordio degli inglesi Friendly Fires, oppure l’ondata punk-funk l’avete mal tollerata in toto fin dall’inizio. Il suono DFA (e relative radici) nella sua incarnazione più pop e i nomi di !!!, Rapture e Lcd Soundsystem (o degli ormai innumerevoli epigoni) sono infatti i primi riferimenti che saltano alle orecchie all’ascolto di queste canzoni. Primi, non unici: se brani come Strobe e On Board sono esplicitamente debitori dei !!! (ed è la somiglianza più forte), se il tributo (vocale e non) ai Talking Heads di In the Hospital è evidente, se in Jump in the Pool e Lovesick si ritrova la catchiness dei primi Rapture, c’è spazio anche per pezzi electro-pop tamarri che ricordano di volta in volta Soulwax (White Diamonds), CSS (la base di Skeleton Boy), persino Scissor Sisters (il falsetto e i ritmi ruffiani di Photobooth). In pratica un bignami furbetto di quasi tutto il pop-rock ballabile di successo degli ultimi anni. Il punto è che la scarsa originalità stilistica (anche nella voce di Ed Macfarlane) non inficia affatto la riuscita delle canzoni, tanto che tra tutte e dieci si fa fatica ad additarne una più debole. Basta avere le idee chiare su cosa si cerca: quello del trio britannico è un disco di pop immediato e senza pretese che centra il suo scopo, ovvero far ballare e divertire dall’inizio alla fine. E con il singolo Paris concede anche un momento romantico (l’esplodere del dolce ritornello “and every night we’ll watch the stars / they’ll be out for us“), in cui guardarsi magari negli occhi – senza alcun bisogno di abbandonare la pista.

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il video di Paris
l’intervista di Ed Macfarlane a Drowned In Sound, con i retroscena sulla registrazione di ogni singola canzone

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Glasvegas – Glasvegas

Glasvegas: Glasvegas (Columbia, 2008)

Il nome scelto dagli ultimi pupilli di NME di successo, per la propria ragione sociale e per l’ambizioso album d’esordio su Columbia, non poteva essere più rappresentativo: in slang scozzese Glasvegas è infatti la città di Glasgow, nei cui locali si è fatto le ossa il quartetto capitanato da James Allen (una somiglianza inquietante con Joe Strummer). E alla madrepatria queste 10 canzoni rimandano di continuo, sia con il pesante ed ostentato accento di Allen che grazie ai riferimenti alla società locale dei testi. La parola Glasvegas emana poi grandeur, e qui in effetti non c’è traccia di canzonette senza pretese o da club. I quasi 7 minuti iniziali di Flowers & Football Tops presentano già tutti i vari ingredienti della ricetta del gruppo: intro e outro solenni, richiami spectoriani nel suono e 60’s nei cori, batteria e drum machine che richiamano Editors e Interpol (alla produzione c’è Rich Costey, già al lavoro sugli ultimi dischi di Muse, Weezer e appunto Interpol), voce sempre intensa e pronta al birignao, testi toccanti ed emo-oriented (in questo caso, il lamento di un genitore per il giovane figlio ucciso). Una miscela poco sobria ma che senz’altro già ai primi ascolti colpisce e affascina, soprattutto con ottimi brani come il singolo Geraldine,S.A.D. Light o Lonesome Swan. Purtroppo in altre canzoni buone intuizioni melodiche iniziali sono parzialmente rovinate dall’eccessivo trascinarsi melodrammatico delle parti vocali (Polmont on my MindDaddy’s Gone). Altri pezzi poi sono probabilmente destinati ad infiammare i connazionali e a fare dei Glasvegas gli Oasis o Arctic Monkeys locali, ma per noi sono un po’ troppo “oltre”: vedi la ballata ubriaca It’s My Own Cheating Heart… (tutta in scozzese stretto!) e l’unico anthem danzereccio Go Square Go! (il ruolo di emuli dei Bloc Party è bene lasciarlo ad altri). Che si rivelino o no l’ennesima meteora destinata a sparire dopo una stagione, i Glasvegas sanno come distinguersi, e il loro è un esordio dirompente: ma quanti rimarranno stregati dalla loro proposta sono avvertiti, sarà un amore difficile.

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il video di Geraldine
l’entusiasta endorsement di Alan McGee sul Guardian

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