Edipo – Hanno ragione i topi

Edipo: Hanno ragione i topi (Foolica Records, 2010)

Con l’esordio solista a nome Edipo, il gardesano Fausto Zanardelli (già all’opera con Edwood, Gretel e Hansel) cerca la sua strada nel pop elettronico lo-fi dai testi arguti, sulla scia di gente come Tricarico o (l’ultimo) Bugo. Hanno ragione i topi – ripubblicato da Foolica dopo l’iniziale uscita in proprio con Produzioni Dada – può vantare un’orecchiabilità diffusa e la presenza a inizio disco di almeno un paio di buoni singoli (È banale stare male sembra una versione adulta e neurodotata dei dARI; Per fare un tavolo prende la celebre filastrocca di Endrigo e la riambienta al tempo dei Musica Per Bambini). Quanto al resto, alla lunga l’effetto-videogioco può far capolino, e la vocalità rauca non è esattamente il selling point del progetto; tuttavia il disco scorre leggero grazie a un’azzeccata alternanza in scaletta fra brani ritmati e rilassati e a una scrittura meno disimpegnata e spensierata di quanto lasci credere il primo ascolto (come per altre recenti sensazioni del cantautorato pop, la disillusione propria di un’intera generazione di post-trentenni affiora da un coacervo di calembour e citazionismo straniante: così è, se vi pare). Da segnalare la conclusiva Sospendimi: ballata romantica quasi completamente acustica, che a sorpresa commuove e mostra potenzialità fino a quel punto inesplorate.

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l’album in streaming su Bandcamp
il video di È banale stare male

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Scissor Sisters – Night Work

Scissor Sisters: Night Work (Polydor, 2010)

Dopo l’esplosivo e multiforme esordio e la virata verso un glam-pop nel segno di Elton John, gli Scissor Sisters si ripresentano con un deciso colpo di spugna (indipendentemente da quanto corrisponda al vero la storia sul disco gettato e riscritto da capo che ci vogliono raccontare): il terzo disco, fin dalla citazione in chiave gay-camp di Sticky Fingers della copertina, segna un chiassoso ritorno della band newyorkese alle sue radici da club. Il paradosso è che Night Work, per quanto più riuscito del precedente Ta-Dah, potrebbe anche rallentare l’accreditamento di Shears e soci presso un pubblico più ampio e trasversale, nel suo affidare le ambizioni più pop al moscio singolo apripista Fire with Fire (forse il pezzo peggiore del lotto). La buona notizia, per chi era rimasto affezionato agli Scissor Sisters più marci di Filthy/Gorgeous o Electrobix, è che in compenso abbondano i possibili singoli disco-funk (Any Which WayHarder You Get) o gli anthem dance (Sex and ViolenceNightlife). Attenzione, l’elettronica fighetta per hipster con il poster dei Daft Punk va cercata altrove: Night Work è uno sfavillante, plasticoso ed eccessivo album disco, registrato per gente che ha voglia di ballare per davvero. Dalla scatenata title track in apertura fino all’apoteosi finale del superproduttore Stuart Price in Invisible Light, le Forbici infilano una sequenza in grado di trattenere gente più o meno ubriaca sotto la mirror ball per tre quarti d’ora senza soste, tra cambi di tempo e di luci. Per riuscirci non vanno troppo per il sottile e si sporcano le mani: copiano se stessi nei riempitivi come Whole New Way, ma assoldano anche Joan Wasser per arrangiare gli archi; inanellano nei credits Santigold, Kylie Minogue e l’icona-tutto Ian McKellen; recuperano tutto il recuperabile, ma specialmente tutto il già abusato nella musica pop da ballo – dai Bee Gees a Flashdance, dai Duran Duran a Sylvester. Una sfrontatezza premiata dal fresco e coinvolgente risultato finale, perché le canzoni e l’amalgama ci sono.
Poi c’è anche chi si diverte in altro modo, eh. A voi la scelta.

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Un disco che prende il divertimento molto sul serio”: leggi l’intervista agli SS di Marina Pierri su Pig

il video di Invisible Light e il remix del pezzo a cura dello stesso produttore Stuart Price
Link anti-Povia: 1) gli Scissor Sisters coverizzano All the Lovers di Kylie Minogue in stile country-Parton;
2) gli Scissor Sister e la stessa Kylie tutti insieme in Any Which Way
il video di Fire with Fire

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Rufus Wainwright – All Days Are Nights: Songs For Lulu

Rufus Wainwright: All Days Are Nights: Songs for Lulu (Polydor/Universal, 2010)

Come è consuetudine per un artista dalla personalità ingombrante come Rufus Wainwright, anche nel caso di quest’ultima uscita All Days Are Nights: Songs for Lulu l’atteggiamento con cui ci si dispone all’ascolto è fondamentale. Nel tentativo di elaborare il suo recente, doloroso lutto (a gennaio è mancata la madre, la cantante Kate McGarrigle), il songwriter canadese confeziona infatti un album intimista e compatto, in cui estremizza quella formula voce-piano a lui già familiare, al contempo essenziale e ridondante, e mette da parte le orchestrazioni pop-barocche della precedente raccolta di inediti Release the Stars. A ciò si aggiunga che, dopo la parentesi Broadway & paillettes con Judy Garland, stavolta per titillare il suo lato di interprete e arrangiatore Rufus sceglie di musicare niente meno che tre sonetti di Shakespeare. Le tre composizioni risultano più monocordi rispetto al resto della tracklist, e poste al centro del disco lo appesantiscono ulteriormente; l’inevitabile mannoiata finale in francese, poi, non aiuta certo a far recuperare vivacità all’insieme (l’aria Les feux d’artifice t’appellent è tratta dall’opera lirica Prima Donna, impresa dello scorso anno). Ecco che quindi, al di là di alcuni pezzi di gran classe (ZebulonThe Dream), il valore di questo disco sta soprattutto nella testimonianza di intensità vocale e talento strumentale che offre. Per apprezzarlo sono necessarie concentrazione, attenzione ai testi e al rincorrersi dei virtuosismi pianistici di Rufus, e un certo sforzo di fantasia per immaginarsi di assistere a una sua performance live. Quelle in cui si mette a nudo e senza troppe sovrastrutture riversa sul pubblico un flusso devastante di romanticismo, autoanalisi e tormenti interiori. Per chi di Wainwright amava le canzoni pop, conviene invece recuperare dallo scaffale i dischi di qualche anno fa, o attendere speranzosi il prossimo giro di giostra.

Rufus Wainwright sarà in concerto stasera al Teatro Comunale di Firenze e sabato al Conservatorio di Milano.

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amarcord-lacrimuccia: una versione di qualche anno fa di Somewhere over the Rainbow (con Kate McGarrigle al piano)
il video di Zebulon

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The Soft Pack – The Soft Pack

The Soft Pack: The Soft Pack (Heavenly/Cooperative, 2010)

La maggiore difficoltà, parlando di un disco come il debutto omonimo dei californiani The Soft Pack, sta nel trattenersi dall’usare un linguaggio giovanilistico e risibile comprendente punti esclamativi e termini come BOMBA o FICO. Sì, perché quello del quartetto di San Diego (sulla bocca di tanti da un bel po’, fin da prima che considerazioni di quieto vivere li inducessero ad abbandonare il vecchio nome The Muslims) è semplicemente un disco di ottimo rock and roll, indie se vi fa comodo la definizione, melodico quanto basta. Un frullato di rock-surf-punk-CBGB-garage pronto per invadere i club di tutto in mondo e le vostre camerette. Qualcosa che da queste parti si fatica ad estrarre dallo stereo, dopo decine e decine di ascolti accompagnati da entusiasmo crescente. In The Soft Pack ci sono gli anthem a presa rapida da mandare a memoria (Answer to Yourself già tra i brani dell’anno); affiorano le vibrazioni che ti davano i mostri sacri del passato (Stooges Velvet e Ramones, ma anche i Feelies e i Nirvana di Bleach – tutti paragoni da prendere cum grano salis, eh); non manca poi qualche buona idea rubacchiata agli stessi semi-revivalisti degli anni zero – gli Shout Out Louds più acerbi nell’apertura C’mon, i Vampire Weekend in Mexico, gli Strokes un po’ ovunque (stesso tiro ruffiano, stessa impostazione vocale, stesso emergere di canzoni “pop” da un suono insieme pastoso e slabbrato). E rispetto a un Is This It qui ci sono pezzi! tutti! diversi!, che mantengono sempre alta l’adrenalina. Ecco, sono scaduto nella scrittura gggiovane e torrenziale. Capita, con gli album di questi ragazzetti talentuosi e dall’aspetto un po’ sfigato che pur non inventando nulla riescono a catapultarti con le loro canzoni in un punto spazio-temporale imprecisato tra Williamsburg, la spiaggia di Santa Monica e le serate più divertenti della tua vita.
A proposito, l’ho già detto che questo disco è una piccola bomba?

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streaming o mp3 download C’mon dal forkcast di Pitchfork
il video di un vecchio pezzo, Extinction
Pull Out in una versione live @ KEXP
il video di Answer to Yourself

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Le Rose – Le Rose

Le Rose: Le Rose (Pippola/Audioglobe, 2010)

La nuova scommessa di Pippola incarna più che mai lo stereotipo critico del “gruppo destinato a dividere”. La musica de Le Rose, duo romano uomo/donna formato da Flavio e Andrea, sprigiona infatti un ampio spettro di suggestioni, con pezzi che spaziano dall’electro all’italo disco fino al pop italiano anni 80 più raffinato e sperimentale (e contemporaneamente da classifica: sì, allora le cose potevano coincidere). C’è quindi pane soprattutto per i denti degli appassionati dei Matia Bazar, di Garbo e Rettore, delle produzioni di Ruggeri e Battiato. Difficilmente invece chi rifugge quell’immaginario potrà apprezzare qualcosa, anche perché lo sfrontato approccio “odiaci o amaci” viene adottato dai due anche nel canto (la scaletta alterna efficacemente pezzi proposti dall’uno, dall’altra o in duetto). Più indigesti, fatta eccezione per l’affascinante nostalgia-Gazebo di Schumann, i brani interpretati dal solo Flavio; mentre la bella voce di Andrea spiazza inizialmente per il frequente utilizzo in “modalità Diana Est”, ma presto si insinua nelle orecchie maliziosa e sensuale. Stesso amore-odio lo possono suscitare i testi (che spaziano dal surreale al volutamente cheap). Quanto alle canzoni, accanto a qualche momento sottotono e a qualche buon esperimento che si perde un po’ per strada (Automobilista), Le Rose ne contiene alcune di grande impatto, sufficienti per far apprezzare l’intero lavoro agli amanti del genere: penso ad esempio a Monica Vitti, il cui potenziale dance-radiofonico potrebbe farne una nuova Pop Porno, a Non urlare (in cui la vocalità fuori dagli schemi dei due viene valorizzata al meglio da un testo azzeccato), al caleidoscopio di synth impazziti che incornicia il seducente pop di Mi dice sì. Pronti per Discoring!

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il post di Italian Embassy, con free mp3 di Non Urlare

Alle radici de Le Rose: la ricca intervista concessa a Nur l’anno scorso

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Chewingum – Eppi n.1 – Il disco si posò

Chewingum: Eppi n.1 – Il disco si posò (Gratis Club Produzioni, 2010)

L’hip-hop spopola, i tempi stanno cambiando” e non sempre la distribuzione di un disco in download gratuito ne implica la mediocrità. È il caso di Eppi n. 1 – Il disco si posò, ritorno dei Chewingum sul medio formato a un paio d’anni di distanza dal primo album La seconda cosa da andare. La scelta di uscire con un Ep (a cui stando ai programmi annunciati ne seguiranno altri, uno ogni cinque mesi) sembra aver giovato allo strambo gruppo marchigiano: liberi dall’esigenza di dare un tono uniforme all’intero repertorio, i tre sperimentano varie direzioni e tirano fuori cinque canzoni più frizzanti e catchy rispetto al “twee all’italiana” a volte un po’ monocorde dell’esordio. Si va dal valzer delirante al pop languido con graffi di finto raggae (Tu devi morire, Lucignolo); da un’irresistibile indie-lambada (Baby Au Tropicalia, tra Gruppo Italiano e Jens Lekman) al gustoso parallelo tra le vicende di una Veronica qualunque e di “quella” Veronica (con tanto di recitativo finale della nota lettera a La Repubblica!). La cover di Nada Senza un perché, che riveste il pezzo della consueta elettronica-Chewingum a bassa fedeltà senza snaturarlo, valorizza invece l’ondulante e particolarissima voce di Giovanni “Ragazzo italiano”, che si fa calda ed espressiva come non mai: segno che forse i tre avranno qualcosa da dire anche quando decideranno di andare oltre il cazzeggio spinto e il calembour-pop. Se comunque i Chewingum continueranno a viziarci con Ep come questo un paio di volte all’anno, per gli album più ambiziosi (e magari con una produzione più ricca e costante) possiamo aspettare sereni.

il coloratissimo sito-città dei Chewingum, con free download de Il disco si posò (disponibile in mp3 o in wav)
per averne una copia fisica, cercare le date dei Chewingum sul myspace e comprarla a un loro concerto
il video di Tu devi morire, Lucignolo

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Two Door Cinema Club – Tourist History

Two Door Cinema Club: Tourist History (Kitsuné/Cooperative, 2010)

L’esordio dei nordirlandesi Two Door Cinema Club suona come l’album da solista che mi aspetto prima o poi da Kele Okereke (immaginando che fosse a lui imputabile la tendenza imboccata dai Bloc Party con One More Chance, ultimo loro singolo di cui si ha traccia). Le dieci canzoni di Tourist History hanno tutte le carte in regola per sbancare e diventare colonna sonora delle vostre serate moderatamente danzanti e dei vostri aperi-alterna-tivi estivi. Ci sono ritornelli appiccicosi (molti i potenziali singoli) e suoni sempre accattivanti. C’è una scaletta non casuale che nei primi pezzi riprende e ammorbidisce il suono incalzante di band come Foals e Bloc Party (per l’appunto), poi si apre a un indiepop arioso e solare alla Phoenix (Something Good Can Work), si concede qualche momento danzereccio (I Can Talk) per approdare infine dalle parti dei Postal Service (sì, ANCORA, nel 2010). Un percorso fluido, onesto, condotto a carte scoperte e con buoni risultati – un po’ una versione con più synth e meno etno-boria dei Vampire Weekend. Eppure il mio atteggiamento verso questo disco resta ambivalente: nell’ascolto distratto e rilassato prevale l’entusiasmo (e i repeat si accumulano), mentre in quello “pensato” affiora una certa irritazione di fondo, non so se dovuta a un bisogno di maggior sostanza o al ricordo dei loro video (con conseguente crisi di rigetto per un immaginario indie-pucci che dire abusato è poco). In definitiva la musica dei Two Door Cinema Club, giovane e vacua, vince proprio in quanto tale: è che forse – nel loro caso – non ho troppa voglia di ammetterlo.

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il video di I Can Talk e quello di Something Good Can Work  
il video di Undercover Martyn

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unòrsominòre. – unòrsominòre.

unòrsominòre.: unòrsominòre. (I Dischi del Minollo/Audioglobe, 2009)

C’è qualcosa di insieme insidioso e commovente nel modo in cui il disco d’esordio del veronese Kappa – già voce nei Lecrevisse e ora nascosto dietro all’ulteriore e typo-friendly ragione sociale di unòrsominòre. – richiama il più viscerale rock alternativo italiano anni 90. La triade Afterhours-Marlene Kuntz-Verdena in particolare (con prevalenza ora dello sferragliare chitarristico dei primi, ora dello spleen contorto dei secondi, ora della furia grunge dei terzi) è infatti una presenza quasi costante negli undici brani di cantautorato rock di unòrsominòre. (quasi tutto suonato e prodotto in proprio), e in parte spiace, per quanto si possa essere affezionati a una generazione di musicisti che ha creato una “scena” indipendente tutta italiana quasi da zero. Spiace perché in queste canzoni l’ispirazione e gli scarti di tono suggestivi non mancherebbero, i passi falsi sono pochi e ascolto dopo ascolto si finisce per affezionarsi ai loro sfoghi di malinconica nostalgia (Gagarin), pura rabbia autodistruttiva (Non sono tranquillo) o amara disillusione (Le notti difficili): però proprio l’impatto iniziale con una musica, una produzione e una voce che suonano così pesantemente Manuel Agnelli (quello più vivace di qualche anno fa) può dissuadere i meno nostalgici dal concederglieli, quegli ascolti. Con l’esperienza arriverà probabilmente anche un suono più personale: intanto il disco merita senz’altro una chance da parte di chi è sensibile ai chitarroni. C’è pure una cover di Ivano Fossati (Discanto) che non mette sonno.

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una versione live acustica di Le notti difficili
mp3 download di Gagarin da Rockit

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Shout Out Louds – Work

Shout Out Louds: Work (Merge, 2010)

Una recensione sana ed equilibrata di Work, opera terza degli Shout Out Louds, coglierebbe con soddisfazione lo sforzo di differenziarsi rispetto ai due dischi precedenti (Adam Olenius e compagni evitano infatti di insistere su certi stilemi Cure-pop ben sfruttati in Our Ill Wills, così come di tornare sul più irruente guitar-pop giovanile di Howl Howl Gaff Gaff). Una recensione che miri all’obiettività riconoscerebbe al contempo Work come un grande disco a metà, ammettendo che buona parte della seconda parte non è all’altezza della prima (alcuni pezzi hanno il fiato un po’ corto), o magari criticando l’eccessiva levigatezza della produzione “americana” di Phil Ek.

Troppo forte è però la tentazione di congedare al più presto tutti i lettori casuali e aprire il gruppo di autocoscienza tra noialtri che ci struggevamo da mesi aspettando il ritorno del quintetto svedese. Così potremmo finalmente contemplare insieme l’amarezza dei primi versi di Play the Game; ammettere come ogni volta l’iniziale 1999 ci tramortisca con quel riff liquido del ritornello, sferzante come vento gelido e impietoso come una serie di schiaffi in faccia; lamentarci di quanto sia crudele buttar lì a tradimento uno slogan come “never trust anyone, run away, run run run” al culmine della tensione (nel singolone Walls); confessare quanto ci manchi Impossible, ma anche quanto l’ascolto di questo nuovo album sia intenso e destabilizzante e terribile come un ritorno di fiamma con qualcuno di molto importante. Con tutto il contorno di anni trascorsi, esperienze maturate, recriminazioni, ricordi troppo ingombranti. Pezzi di cuore ed errori da raccogliere, mentre ci innamoriamo degli Shout Out Louds per la terza volta e scopriamo che, in modo diverso, fa ancora male.

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mp3 download di Walls gentilmente offerto dal sito della band
mp3 download di Fall Hard nel remix dei Passion Pit (”Passion Pit’s Summertime Radio Remix“)
il video di Walls
il video di Fall Hard

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Pipers – No One But Us

Pipers: No One But Us (Materia Principale/Self, 2010)

Quello dei Pipers è un esordio nel segno della continuità con quella serie di band che ha traghettato l’eterno carrozzone del britpop dai fasti di metà anni 90 ai giorni nostri, addolcendone il suono e portando avanti con onestà una formula magari non più “di moda” ma sempre dal sicuro effetto, sul piano del coinvolgimento romantico e del singalong. Gente come Travis e Stereophonics, Embrace e Starsailor. Le undici tracce di No One But Us mostrano un gruppo già capace di sfornare piccole hit, come la struggente Golden Sand (degna dei migliori Keane), la trascinante Sick of You (il pezzo più indie-twee del lotto), la title-track (vero e proprio manifesto musicale anglofilo e piovoso in apertura, tra cori e schitarrate appassionate) o ballad levigate come Chance e Don’t Ask for More. Al netto di qualche episodio (da queste parti convincono meno Eveline, moscetta sotto l’arrangiamento d’archi, e Save the Tears che “smarmella” decisamente nel finale), si tratta di un esordio positivo, limpidamente e orgogliosamente di genere, accattivante all’ascolto. Ci sarebbe poi da ricordare un piccolo dettaglio, che non traspare subito da una pronuncia e una produzione che potrebbero aprire alla band prospettive anche a livello internazionale (intanto ci sono state aperture per Charlatans e Ian Brown): i Pipers non sono l’ultima band londinese in corsa per i Mercury Prize, bensì dei ragazzi di Napoli (!) insieme solo da un paio d’anni, usciti con un’etichetta locale. Nella speranza quindi di verificarne un po’ ovunque la tenuta dal vivo (anche se siamo probabilmente di fronte a una band più “da stereo”), i Pipers meritano attenzione, nel loro tentativo di  proporre canzoni pop bypassando sia i trend del momento che la regola per cui un italiano deve per forza “suonare” e comporre all’italiana.
Nothing to expect cause we’re just Britpop Lovers, we never said we’d change the world“.

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il video tutto lennonian-partenopeo (occhio al finale!) di Sick of You

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The Magnetic Fields – Realism

The Magnetic Fields: Realism (Nonesuch, 2010)

Non importa che riteniate gli anni 10 già iniziati oppure no: le Lady GaGa sono già decennio passato, perché sono tornati i Magnetic Fields e con loro la musica pop, quella vera. Inutile sforzarsi di cercare dei difetti a Realism, il gemello acustico e zuccherino dell’altrettanto splendido Distortion di un paio di anni fa (”gemello” per la corrispondenza tra le copertine, perché qui siamo più dalle parti di 69 Love Songs e soprattutto i): io getto la spugna, perché qui ancora una volta Stephin Merritt si dimostra uno scrittore di Canzoni con la C maiuscola. Se la sua musica non vi interessa, se non vi accarezza e non vi fa sognare, vuol dire che semplicemente cercate qualcosa che canzone non è (non preoccupatevi, siete ormai in numerosa compagnia). Uno con quella capacità di sfornare sempre l’arrangiamento perfetto per la melodia perfetta accompagnata da un testo ficcante e catchy, calando il suo talento in forme e stili sempre differenti (si va dalle marcette al cantautorato retro, e anche questo disco è synth-free come i due precedenti), se avesse sfondato negli anni 60 sarebbe nella leggenda insieme ai più grandi del pop. Invece i suoi album migliori (finora) sono usciti tra i ‘90 e gli ‘00: così, mentre all’estero Peter Gabriel ci gioca a scambio di cover, dalle nostre parti è forse destinato a rimanere per sempre roba per pochi. Ce ne faremo una ragione innamorandoci su You Must Be out of Your Mind, duettando con noi stessi sulla struggente Walk a Lonely Road, cullandoci sulle voci di Claudia Gonson e Shirley Simms, sospirando su I Don’t Know What to Say e così via, per mesi e mesi. Tredici pezzi di livello altissimo, che nell’alternanza di voci e diverse declinazioni di romanticismo finiscono in un baleno. È antipatico sparare già un “disco dell’anno” a gennaio (e in fondo per chi già conosce Merritt qui non ci sono sorprese), perciò mi limiterò a dire che Realism è la realtà in cui vorrete vivere dopo averlo ascoltato.

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Stephin Merritt coverizza Not One of Us di Peter Gabriel
una divertente intervista di Merritt a musicOMH

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The Hidden Cameras – Origin:Orphan

The Hidden Cameras: Origin:Orphan (Arts & Crafts/Audioglobe, 2009)

Portato felicemente a compimento con il precedente Awoo il percorso di progressivo raffinamento della loro formula di autodefinita “gay church folk music” (bozzetti di frizzante indiepop dalle melodie ripetitivo-appiccicose inframezzati da momenti più introspettivi e paranoici, con testi provocatori, queer/dissacranti o comunque sempre pronti al calembour), gli Hidden Cameras, ensemble canadese a formazione variabile ruotante attorno al leader Joel Gibb, tornano con un album maturo, volutamente involuto, che a tratti conferma e a tratti esaspera certe loro caratteristiche. Se infatti episodi come He Falls to Me o Underage richiamano i fasti da R.E.M./Housemartins sotto acido del loro miglior repertorio passato, per buona parte delle altre canzoni di Origin:Orphan l’aggettivo “fresco” è l’ultimo che si è tentati di utilizzare. Predomina un’atmosfera da perdita dell’innocenza e della spensieratezza (o se preferite da puntata di Six Feet Under); si va da pezzi più asciutti e quieti dominati nel ritmo e nei ritornelli da una circolarità ipnotica (The Colour of a Man) a veri e propri trionfi di orchestralità melò, che a ben vedere costituiscono i momenti più interessanti: assaporati infatti a tutto volume il progressivo divampare della Ratify the New in apertura, la delicatezza della Silence Can Be a Headline che chiude e il lamento barocco di Walk On, si può dire che il gioco valeva la candela. Per divertirsi ancora come ragazzini agli Hidden Cameras restano le filastrocche impazzite che completano la scaletta e le travolgenti e colorate esibizioni live: qui era giusto provare a crescere e ad affiancare alla maggiore riflessività di alcune liriche un suono più elaborato e adulto.

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gli Hidden Cameras saranno in Italia ad aprile per quattro date: Bologna, Roma, Terracina e Firenze
una versione live di He Falls to Me
il video del primo singolo In the NA

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Kill It Kid – Kill It Kid

Kill It Kid: Kill It Kid (One Little Indian/Goodfellas, 2009)

Alt-rock’n’roll acrobatico? Quando ancora viene la tentazione di sperimentare nuove stupide combinazioni per etichettare un gruppo, vuol dire che almeno il tentativo di smarcarsi dalle tendenze imperanti nel mainstrindie-rock c’è stato. E in effetti con il loro esordio omonimo i giovanissimi inglesi Kill It Kid propongono una manciata di canzoni scatenate da bersi tutte d’un fiato, come rinfrescante pausa sia dall’ormai stantìo new-new-wave revival, sia da certi altrettanto inflazionati eccessi avant-freak, sia dall’attuale forte ritorno al folk e al blues più minimali. Non che i cinque di Bath non peschino a piene mani nella storia del pop: nella loro centrifuga finiscono il country e il suddetto rock and roll (Heaven Never Seemed So Close), echi southern/zeppeliniani (Dirty WaterIvy And Oak) ma anche  soul (le due voci). Convince l’innesto di arrangiamenti orchestrali e contemporanei (violino onnipresente) su pezzi spesso dall’impatto granitico. E convince soprattutto il combo vocale: la tastierista Stephanie Ward, che già potrebbe reggere la scena da sola, spesso gioca a preparare il terreno per la zampata vincente del chitarrista, leader e autore Chris Turpin. Ugola e personalità dirompenti, quelle di Turpin: una sorta di cuginetto rock di Antony Hegarty, abbina sensibilità (Taste the Rain) e rissosità (Burst Its Banks). Kill It Kid si regge su un equilibrio miracoloso, e il prezzo è una certa sensazione di artificiosità e ruffianeria che affiora a tratti (c’è più intrattenimento che cuore). Il livello complessivo dei pezzi è però buono: se apprezzate l’energia di gente come i Black Lips e non vi spiace arricchirla con un po’ di raffinatezza pop e di romanticismo (Fool for Loving You), i Kill It Kid potrebbero essere la band che fa per voi qui e ora.

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i video di Heaven Never Seemed So Close e Send Me an Angel Down
mini-live acustico (4 pezzi) e intervista su Bandstand Busking
una cover live di (!) Hot N Cold (Katy Perry)
il video di Burst Its Banks

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Magpie – Noir or Several Murders in Sleepless Nights

Magpie: Noir or Several Murders in Sleepless Nights (DeAmbula/I Dischi del Minollo/Venus, 2009)

Dici Offlaga Disco Pax e pensi subito alla penna e alla presenza di Max Collini: eppure è indubbio che i buoni risultati e il riscontro di pubblico ottenuto dal gruppo reggiano siano dovuti all’amalgama dei suoi testi con la musica. E se Enrico Fontanelli è fondamentale negli ODP per la ritmica e il suono kraut/wave, è a Daniele Carretti che si devono la melodia, le chitarre che sottolineano i brani più sferzanti del gruppo senza risultare invadenti, il piano che accompagna quelli più riflessivi e struggenti. Ora che Carretti presenta l’album di debutto del suo progetto personale Magpie (per lungo tempo un duo comprendente anche Valentina Feroni al basso, ma con lui sempre autore e dominus) questi elementi guadagnano per la prima volta le luci della ribalta. È invece la voce (quando presente) a mantenersi nelle retrovie: il timbro di Carretti è delicato, semplice, volutamente timido; nelle 11 tracce/13 composizioni di Noir or Several Murders in Sleepless Nights la scena è tutta per esplosioni garbate di shoegaze e dream-pop (c’è anche qualcosa dei Giardini di Mirò più quieti) e progressioni armoniche che mettono in campo dalle chitarre acustiche ai riverberi, dal piano alle ritmiche trip-hop (Low Bleeding), fino agli archi dell’ospite Nicola Manzan. Una ricchezza di strumentazione che ricerca e ottiene però, paradossalmente, la creazione di atmosfere glaciali, vuote, solitarie: come quelle suggerite dal paesaggio invernale della copertina. Un disco denso e riflessivo per immaginarsi rannicchiati nello scompartimento di un treno notturno, per sognare quelle calde coperte a cui la sveglia ci ha strappati troppo presto al mattino, per scrutare un orizzonte nebbioso in cerca di speranze e risposte.

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alcuni pezzi extra-album da Soundcloud
l’intervista a Rockit per saperne qualcosa di più sulla line-up della band negli anni   
    
Magpie – Winter

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Built to Spill – There Is No Enemy

Built to Spill: There Is No Enemy (Warner Bros, 2009)

Che li si segua da pochi anni o dall’inizio della loro longeva carriera (che ha sempre privilegiato la qualità sulla quantità, con 6 album distribuiti in quindicennio di attività e neanche un passo falso), un nuovo album dei Built to Spill è un evento sulla cui rilevanza non si discute. There Is No Enemy, settimo sigillo nella discografia della band guidata da Doug Martsch, non sfugge alla regola e le sue canzoni ti avvolgono subito come un abbraccio fraterno e rassicurante che da tempo attendevi di ricevere un’altra volta ancora. Non siamo comunque di fronte a una delle prove migliori del gruppo dell’Idaho: There Is No Enemy sconta probabilmente il fatto di venire dopo un album intenso, acido e micidiale come You in Reverse, rispetto al quale i suoi arrangiamenti (dall’uso dei fiati al profluvio di “yeah” nel cantato) trasmettono maggiore rilassatezza e serenità. Un cambiamento di mood che di per sé potrebbe non costituire un difetto (un pezzo come Hindsight è un vero e proprio ricostituente per l’umore da depresso-latente del fan medio della band): solo che alcuni brani (Life’s a DreamDone) annacquano quelle aperture con cui i nostri riescono sempre a scuoterti in strutture un po’ troppo già sentite o a tratti fastidiose. Questione di sensazioni, sia chiaro, visto che altrove (nella scheggia “flanellosa” Pat, nel consueto numero strappamutande Nowhere Lullaby, nell’altrettanto classica cavalcata chitarristica Good Ol’ Boredom) i Built to Spill ripetono se stessi in modo un po’ più convincente. Tutti questi discorsi comunque finiscono nella spazzatura nel momento in cui, quasi in coda, parte Things Fall Apart, probabilmente la loro ballad più triste e commovente di sempre: un riff acustico che accompagna il lamento di Martsch come un rintocco di campana che sottolinea le amarezze della vita e delle relazioni. Fade out serenità, bentornati Built to Spill.

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una versione live di Hindsight

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Necrophiliac Rock&Roll (Eterea PostBong Band @ Ponterotto)


Eterea PostBong Band @ Arci Ponterotto, Montelupo Fiorentino, 23/01/09

Come al solito, lo spettacolo si apre prima che il concerto abbia inizio.
Il concerto è quello degli Eterea PostBong Band. Teatro della loro incursione è stavolta il circolo di Ponterotto, che in questa stagione ha riaperto la sua appetitosa programmazione musicale per la gioia degli appassionati di concerti dell’empolese e non solo.

Anche stavolta (per chi ne ha visto altre date in passato) l’entrata in scena del quartetto elettro-funk-rock di Schio è preceduta da apparizioni nelle varie stanze del locale dei suoi membri, rigorosamente chiusi dentro le soffocanti tute anticontaminazione che ne costituiscono la divisa d’ordinanza. Piccoli trucchi del mestiere per destare curiosità di cui non ci sarebbe neanche bisogno, perché quando i vicentini salgono sul palco e ancora con le maschere addosso iniziano a suonare ci pensa il loro vortice sonoro a travolgere tutti, distogliendo anche molti degli avventori più distratti dalla routine birrinochiacchiera-cicchino fuori. Si parte con Scle-dance, brano geniale fin dal titolo (che richiama cripticamente l’origine geografica della band), contenuto ne La Chiave del 20 (lo split album con gli Uochi Toki del 2007); si prosegue con altri pezzi sia dai primi e ormai lontani lavori autoprodotti che dal recentissimo Epyks 1.0 (la prima parte di un concept incentrato sul rapporto malato con la comunicazione e l’alta tecnologia). Un’ora e mezzo di musica quasi completamente strumentale (campionamenti e allegro cabaret a parte) che scivola via come un ottimo cocktail goduto in bella compagnia. Salta alla mente un accostamento con un’altra potente live band emersa negli ultimi anni, i Calibro 35, per la capacità di coinvolgere un uditorio trasversale senza l’utilizzo della vera e propria forma canzone, ma restando pur sempre nel campo dell’immediatezza e della fruibilità. Le analogie finiscono ovviamente qui: ove la band di Enrico Gabrielli e soci (i Calibro 35, val la pena precisarlo: negli Eterea PostBong Band il prezzemolino Gabrielli non suona, *per ora*) elabora la propria proposta filologico-rinnovatrice bazzicando territori consolidati dal punto di vista stilistico e della strumentazione come quelli delle soundtrack vintage italiane, i profeti vicentini del “post bong” propongono una musica postatomica, totale e senza regole, a partire dalla line-up insolita (due chitarre, un tastierista/campionaturista, un addetto alle percussioni che si divide tra tamburi, macchine da scrivere e congegni elettronici). Il suono nerd e giocoso (come da garanzia Trovarobato) di una provincia meccanica che trova sfogo applicando la tecnologia al rock muscolare, innestando inaspettate melodie morriconiane su ritmi elettronici postmoderni, sfruttando a scopo ludico gli stereotipi della musica da ballo più becera mentre glieli rivolta contro sadicamente. Bene, bravi, bong.

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Annie Hall – Carousel

Annie Hall: Carousel (Pippola/Audioglobe, 2009)

C’era molta attesa da queste parti per il ritorno degli Annie Hall. Il loro esordio Cloud Cuckoo Land aveva sorpreso e conquistato molti per gusto e personalità degli arrangiamenti; brani dalla malinconia strisciante e autunnale, capaci di scavarti dentro poco a poco. A due anni di distanza, Carousel appare un ritratto meno compatto e più a tutto tondo della band bresciana (ora ufficialmente allargata a quintetto, con l’aggiunta alla classica formazione a quattro del fonico e musicista aggiunto Daniele Salodini). Chi ha nel frattempo ascoltato gli Annie Hall dal vivo, si è trovato davanti infatti una vera e propria rockband – nel senso più classico-acustico del termine – che nel riproporre quelle canzoni andava oltre la levigatezza dell’ottima produzione, tirandone fuori ancor più la dolcezza e la spensieratezza. Non più soltanto un ascolto da condividere con pochi intimi vicino a un caminetto acceso, ma la band che avremmo voluto veder suonare alle feste di fine anno delle superiori (se in Italia esistessero), per fare da colonna sonora a tutti i nostri sorrisi, amori e delusioni. Ecco, Carousel ci presenta questi Annie Hall anche su disco: accanto a pezzi che richiamano la delicatezza del debutto (Here Is LoveJelly’s Dream, l’apertura breve e spaccacuore di Rainy Day), c’è spazio per decisi passi in avanti quanto a catchyness ed esplosività pop, come Paralyzed (come sarebbero gli Wilco con Lennon alla voce?), Do You Wanna Dance With Me? (a proposito di party di fine anno) e lo sfogo orgoglioso di Letters. Ma anche per episodi sbarazzini come Violet (in cui Fabio Dondelli cede la ribalta vocale al bassista Giorgio Marcelli) e per momenti dal fascino più discreto (da brivido gli archi che incorniciano le amare constatazioni di Lips). Fedele al titolo, Carousel è una giostra di feste, scherzi, corteggiamenti, malinconie, ricordi, energia, divertite armonie vocali. Un secondo disco più vario e “diretto”, con canzoni pronte per irrompere quasi in blocco nelle vostre orecchie e poi risbucare fuori dalle vostre labbra, in un festoso sing-along. A me è già successo.

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il disco in streaming su Rockit
trattazione del disco e free mp3 di Letters su Italian Embassy
alcuni estratti dalla serata di presentazione del disco presso il Teatro Centro Lucia, Botticino (BS)

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Lou Barlow – Goodnight Unknown

Lou Barlow: Goodnight Unknown (Domino/Self, 2009)

I Sebadoh, i Folk Implosion, le registrazioni casalinghe come Sentridoh, le tante collaborazioni: Lou Barlow non è certo fondamentale per il rock alternativo americano per il solo ruolo di bassista e coautore nei Dinosaur Jr. Curiosamente, nella sua lunga e onorata carriera i primi due album usciti a nome proprio sono giunti proprio in questi ultimi anni, che lo hanno visto contemporaneamente riunirsi a Murph e J Mascis e raccogliere coi Dinosauri un seguito forse maggiore che nei ‘90 (e più che meritatamente, visto il tiro di Beyond e Farm). Naturale quindi che il Lou Barlow solista privilegi la dimensione acustica e rilassata. Mentre però in Emoh (2005) le ballate folk-pop la facevano da padrone, questo nuovo Goodnight Unknown si presenta un poco più vario: un ritratto completo, in poco meno di quaranta minuti, del musicista e della Bella Persona Lou. Ti viene da rimpiangere di non conoscerlo e non poter quindi andare alle grigliate domenicali a casa sua, apprezzare la cucina della moglie e duettare su La Roux con la figlia, spettinarsi con i ruttini del nuovo arrivato (da pochi giorni!) Hendrix Wexford Barlow… e naturalmente far serata ad ascoltarlo tutti insieme mentre rifà voce e chitarra TUTTE queste 14 canzoni. Perché se già il terzetto di inizio disco presenta le coordinate entro cui si muoverà buona parte del resto (il rock energico ma garbato di Sharing, la ballad grassa e curata che fa da title-track, il folk Elliot Smith di Too Much Freedom), la qualità in seguito non scende – e probabilmente resterebbe alta anche se le tracce fossero 30. Meglio così: dal rinfrescante primo singolo The Right alla più malinconica I’m Thinking…, fino al romanticismo sussurrato di Take Advantage e The One I Call ci sono abbastanza pezzi per farne proprio uno nuovo a ogni ascolto successivo, senza arrivare all’indi(e)gestione. E se sai scrivere le canzoni e hai quella delicatezza nell’intonarle, anche quando riutilizzi più volte una formula molto simile (capita) quasi non ci se ne accorge. Goodnight Unknown e Farm nello stesso anno sono veramente troppa grazia.

il myspace di Lou Barlow
la pagina di Lou Barlow sul sito della Domino
il video di The Right

il video di Don’t Apologize e quello di Too Much Freedom
un video casalingo di Take Advantage
il bel documentario sul making of dell’album (alle grigliate ci pensa Dale Crover dei Melvins, che suona la batteria nell’album)
mp3 di Gravitate in free download in streaming, su Pitchfork
due pezzi dal disco e una cover di Bulletproof (La Roux) su Spin

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Alec Ounsworth – Mo Beauty

Alec Ounsworth: Mo Beauty (Anti-/Self, 2009)

Unghie Sulla Lavagna: questo l’effetto provocato dalla voce diAlec Ounsworth, secondo una serissima ricerca Istat, sul 65,77% dei miei conoscenti. Il sottoscritto si colloca nella minoranza che aveva invece a tratti apprezzato i due album dei danzerecci Clap Your Hands Say Yeah. Il che non mi ha impedito (oltre che di passare alla prima persona in questo momento) di scoppiare in una sonora risata alla notizia che il leader della band di Philadelphia si sarebbe ripresentato con un album da solista-songwriter. E Ounsworth, per evitare la bocciatura piena con calcio nel sedere accademico che i pregiudizi generalizzati facevano intravedere, si è impegnato: abbandonando le mire da dancefloor e i facili stilemi Talking Heads, concentrandosi sulla forma canzone, evitando pretenziosi riempitivi strumentali, andando a registrare il disco a New Orleans e riempiendolo di fiati, ritmi e suggestioni locali. In alcuni episodi la rinfrescata generale dà buoni risultati: That Is Not My Home (After Bruegel) “rinnova nella continuità” il Byrne-pop vivace dei CYHSY, mentre Obscene Queen Bee #2 segue strade più mature e riflessive senza (più) risultare stucchevole. Purtroppo, al di là dei fallimenti completi come l’imbarazzante roots-folk di Holy, Holy, Holy Moses (in cui forse la tortura sonora inflittaci serve ad evocare la disperazione post-Katrina), quasi ovunque coesistono nello stesso pezzo momenti assai convincenti – per arrangiamento, uso dello strumento-voce (!), vivacità ritmica – e altri in cui rifanno capolino la stanchezza e irritazione sempre in agguato anche nei dischi della band-madre. Tanto vale quindi considerare Mo Beauty un terzo capitolo della saga CYHSY * (più evoluto e interessante, più riuscito del secondo) e consigliarlo soltanto a chi ne reggeva voce e discontinuità. Gli altri passino pure oltre.

* Ah, i completisti di Ounsworth (cielo, esistono?) sappiano che il nostro, in periodo iper-ispirato, ha debuttato nel 2009 anche con un altro progetto: Flashy Pithon. Il disco si può preascoltare e comprare sul sito del gruppo, e musicalmente siamo a metà tra i vecchi e più ritmati CYHSY e la sua nuova incarnazione folk-cantautorale. Mobbasta però Alec, dacci tregua per un paio d’anni almeno.

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I see a whole new way now (The Horrors + Gliss @ Flog)

The Horrors + Gliss @ Auditorium Flog, Firenze, 19/11/09

Inutile negarlo: gli Horrors, in Italia nei giorni scorsi per il tour di supporto al secondo e ben più apprezzato disco Primary Colours, li aspettavamo tutti quanti un po’ al varco, seppure per motivi diversi. Nella data fiorentina alla Flog si possono facilmente distinguere le due fasce di pubblico. Sotto il palco i fans accaniti (non troppi, più giovani, dall’aspetto mediamente meno modaiolo di quanto mi sarei aspettato), che seguono Faris Badwan e soci dai tempi di Strange House e sperano in una scaletta omnicomprensiva. Nelle retrovie tutti gli altri, che invece in buona parte si accontenterebbero di ascoltare le canzoni dell’ultimo disco – come dire – riconoscendole. Sulle aspettative basse influiscono i racconti di alcuni live recenti, ma anche il (doveroso?) pregiudizio negativo che da qualche anno accompagna le giovani band britanniche, soprattutto se revivaliste, soprattutto se sbarcate sulla copertina di NME all’esordio o ancor prima. Insomma, bel cd, ma dal vivo “vi ci voglio”.

Quasi in ossequio a questa spartizione dell’uditorio, nonché alla netta cesura di stile tra i due dischi finora pubblicati, il concerto è come spezzato in due parti. Nella prima gli Horrors eseguono quasi integralmente Primary Colours, ed ecco la sorpresa: funziona. Dal crescendo iniziale di Mirror’s Image in poi le canzoni vengono riproposte con sufficiente fedeltà (con New Ice Age in particolare che acquista un ulteriore ed eccitante vigore); il frontman spilungone tiene il palco ma anche le note. Nel riproporre pezzi come questi dal vivo era forse inevitabile dar loro una veste più spoglia e post-punk, con il conseguente rischio di farli suonare più freddi e derivativi di quanto non siano: per limitare questo effetto gli Horrors giocano la carta dei volumi altissimi e dei synth invadenti, con risultati accettabili anche per chi di cloni dei Joy Division ne ha sentiti tanti: si batte il piedino, si canticchia qualcosa, ci si sente gggiovani. L’autonomia purtroppo non è infinita: e dispiace che, dopo il nuovo singolo Whole New Way, i cinque londinesi  cedano leggermente proprio nel gran finale, su Who Can Say (voce che si incrina e mezza papera nello “stop and go” parlato, il picco drammatico del singolone) e Sea Within a Sea (che nel complesso non fa un grandissimo effetto: ma del resto ci si poteva aspettare, da un pezzo così ben prodotto in studio).

Un live comunque più che dignitoso – se davvero nel loro primo tour gli Horrors non sapevano tenere in mano gli strumenti, le cose sono cambiate.

Poi ci sarebbe la seconda parte: nel bis vengono riproposti uno dopo l’altro alcuni pezzi forti dell’esordio (Count in FivesSheena is a ParasiteGloves). Come prevedibile, non ci sono più un tempo né regole né volumi da seguire: è caciara senza freni sia sopra il palco sia sotto. Ma va bene così. Gli aficionados se ne andranno soddisfatti, anche se avrebbero preferito averne ancora.

… io sono a posto così, grazie. Anche perché la serata era iniziata con la felice scoperta dei Gliss, trio californiano che propone uno shoegaze-pop psichedelico non particolarmente originale, ma di impatto piacevole: una sorta di reboot dei Black Rebel Motorcycle con spruzzatine di Smashing Pumpkins e pure Metric, grazie alla voce femminile che sull’ultimo disco Devotion Implosion sembra predominare. In realtà dal vivo la maggior parte dei pezzi li canta il leader (chiamiamolo così visto che scrive i testi) Martin Klingman, che dovrebbe essere il batterista (con la bionda Victoria Cecilia al basso e David Reiss alla chitarra). Il condizionale è d’obbligo, perché i tre si scambiano un paio di volte gli strumenti durante il loro breve ma piacevole set, e da quel che se ne legge in rete la cosa pare essere un’abitudine.
I Gliss tornano in Italia per altre tre date proprio in questi giorni, stavolta in locali più piccoli e da headliner: potrebbero valere una visita, per valutare se il loro live regge e sfrutta la distanza più lunga.

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