Kill It Kid – Kill It Kid

Kill It Kid: Kill It Kid (One Little Indian/Goodfellas, 2009)

Alt-rock’n’roll acrobatico? Quando ancora viene la tentazione di sperimentare nuove stupide combinazioni per etichettare un gruppo, vuol dire che almeno il tentativo di smarcarsi dalle tendenze imperanti nel mainstrindie-rock c’è stato. E in effetti con il loro esordio omonimo i giovanissimi inglesi Kill It Kid propongono una manciata di canzoni scatenate da bersi tutte d’un fiato, come rinfrescante pausa sia dall’ormai stantìo new-new-wave revival, sia da certi altrettanto inflazionati eccessi avant-freak, sia dall’attuale forte ritorno al folk e al blues più minimali. Non che i cinque di Bath non peschino a piene mani nella storia del pop: nella loro centrifuga finiscono il country e il suddetto rock and roll (Heaven Never Seemed So Close), echi southern/zeppeliniani (Dirty WaterIvy And Oak) ma anche  soul (le due voci). Convince l’innesto di arrangiamenti orchestrali e contemporanei (violino onnipresente) su pezzi spesso dall’impatto granitico. E convince soprattutto il combo vocale: la tastierista Stephanie Ward, che già potrebbe reggere la scena da sola, spesso gioca a preparare il terreno per la zampata vincente del chitarrista, leader e autore Chris Turpin. Ugola e personalità dirompenti, quelle di Turpin: una sorta di cuginetto rock di Antony Hegarty, abbina sensibilità (Taste the Rain) e rissosità (Burst Its Banks). Kill It Kid si regge su un equilibrio miracoloso, e il prezzo è una certa sensazione di artificiosità e ruffianeria che affiora a tratti (c’è più intrattenimento che cuore). Il livello complessivo dei pezzi è però buono: se apprezzate l’energia di gente come i Black Lips e non vi spiace arricchirla con un po’ di raffinatezza pop e di romanticismo (Fool for Loving You), i Kill It Kid potrebbero essere la band che fa per voi qui e ora.

myspace
i video di Heaven Never Seemed So Close e Send Me an Angel Down
mini-live acustico (4 pezzi) e intervista su Bandstand Busking
una cover live di (!) Hot N Cold (Katy Perry)
il video di Burst Its Banks

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Editors – In This Light And On This Evening

Editors: In This Light and on This Evening (Pias/Self, 2009)

In This Light and on This Evening, ultima fatica degli Editors, è un disco che convince chi ha amato o semplicemente apprezzato i primi due album della band inglese a concedergli ascolti ripetuti e attenti. Perché spesso le apparenze ingannano, e si tende a resistere all’istinto iniziale di gettare il cd dalla finestra al grido di “No, l’EBM No!”. Perché magari c’è solo da farci l’abitudine, e comunque è un cambiamento coraggioso a cui va data una chance, etc. Bene, ecco l’opinione maturata un po’ più a freddo da queste parti: la “svolta future-pop” e la sparizione delle chitarre sono inaccettabili per chi considera il formato “canzone rock catchy e romantica” la collocazione ideale per la voce profonda e piaciona di Tom Smith (esiste da anni tutto un mondo di progetti che ruotano attorno al binomio voce cavernosa + drum machine, e lo fanno meglio); come se non bastasse, il tentativo di conciliare la suddetta sterzata elettronica e la permanenza nel mainstream, sulle orme di New Order e Depeche Mode e con la benedizione del produttore Flood, si scontra con un enorme iceberg: queste canzoni fanno pure schifo. Oltre al ruffiano ma efficace singolo Papillon si salva infatti poco altro, e se certi giri melodici restano in testa è solo per ricordarti quanto siano scontati e irritanti; quando nel finale i bpm diminuiscono, poi, le cose peggiorano ulteriormente. Non posso prevedere se ora la carriera degli Editors si inabisserà, però questo disco si candida senz’altro al premio di album suicida dell’anno, oltre ad essere una delle più deludenti e indifendibili opere terze sentite negli ultimi anni. Che amarezza.

myspace
una versione live di Bricks and Mortar
il video di Papillon

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Neils Children – X.Enc.

Neils Children: X.Enc. (Structurally Sound/Goodfellas, 2009)

Io un po’ me la immagino (e invidio chi l’ha vissuta) la genesi di una band come i Neils Children. La passione comune per Cure e P.I.L., gli scambi musicali carbonari, le prime vergognose cover dei Joy Division nel garage della nonna. Poi il suono che si affina, i cambi di formazione con l’ingresso di nuovi stimoli ed energie, l’adrenalina del post punk ricreato *per davvero*, con la batteria secca e i bassi pulsanti e il clangore delle chitarre. Ecco, il problema dei Neils Children è che per quanto X.Enc. sia il loro primo album vero e proprio (prima, anche a causa di qualche disavventura discografica, solo singoli e una raccolta di rarità uscita in Giappone – how indie!), la band esiste-da-circa-10-anni. Eppure a tratti sembra che siano ancora fermi lì, al muro informe di suono, ai pezzi da demo. X.Enc. è uno di quei dischi che senz’altro colpisce più per l’impatto (come in Motorcar e nella strumentale Communique) che per le canzoni: queste ultime spesso scarseggiano in fantasia e presentano ritornelli moscetti (vedi alla voce Sometimes It’s Hard To Let Go), per poi magari generare lampi d’entusiasmo solo in un inciso o un’apertura improvvisa. Non che manchino i pezzi riusciti: tra questi, più godibili i pezzi power-pop alla Pete & the Pirates (Indifference Is Vital, la deliziosa I’m Ill) rispetto agli esercizi di stile sul tema “rifacciamo Three Imaginary Boys” come I Can’t See You . Ma in generale il punto è che o sei John Lydon e crei qualcosa di effettivamente nuovo (caso sempre più raro, ancor più nel rock chitarristico, ancor più nei fin troppo battuti territori del post-punk), oppure la via del Disco di Solo Impatto lascia il tempo che trova – e devi saper mettere insieme anche un tot di canzoni ben scritte. Gli Horrors, compagni di tour e di esperimenti tricologici discutibili, lo hanno già capito. I Neils Children dovrebbero sforzarsi di più, per evitare il rischio di passare inosservati al di fuori della nicchia dei completisti del genere.

myspace (attualmente sono rimasti in due dopo l’abbandono del bassista: ma non hanno intenzione di mollare)
il video di I’m Ill

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The Big Pink – A Brief History Of Love

The Big Pink: A Brief History of Love (4AD/Self, 2009)

Secondo un noto adagio calcistico, per fare una grande squadra bastano un buon portiere, un libero affidabile, un centrocampista di personalità e un centravanti che la butta dentro. Da questo punto di vista in pochi possono negare l’etichetta di disco pop riuscito al debutto dei The Big Pink. Quello del duo londinese formato da Robbie Furze e Milo Cordell si impone a mio giudizio come uno degli esordi inglesi più interessanti dell’anno: A Brief History of Love è un album di buone canzoni (tutte imprevedibilmente incentrate su vari aspetti dell’argomento Amore, un amore altrettanto imprevedibilmente marcio e disilluso), stuzzica la tua parte nostalgica pur dandoti l’impressione di essere uscito nel 2009 e non 20 anni prima, e soprattutto (nonostante abbia detto 2009) ti TIENE SVEGLIO fino alla fine, fissandoti in testa le sue melodie e ipnotizzandoti con le sue dissolvenze. Musicalmente potremmo parlare di revival del miglior shoegaze britannico ‘80/’90 (i soliti nomi, Jesus & Bloody Mary Valentine Scream Etc., con l’estetica 4AD nel background oltre che sulla copertina) e del coevo lad-rock di Madchester e dintorni (il timbro vocale così Richard Ashcroft di Love in Vain, le citazioni Stone Roses di At War with the Sun); il tutto comunque ben miscelato e ritinteggiato di elettronica, con episodi come Tonight e Frisk che riportano in pieno nella contemporaneità (la Merok, piccola etichetta di Cordell, ha all’attivo uscite dei primi Klaxons e Crystal Castles). Ma in definitiva le mosse vincenti di A Brief History of Love sono quelle a cui mi riferivo nella metafora calcistica di inizio post. Ad esempio il partire lasciando tutti a bocca aperta con le atmosfere dell’avvolgente Crystal Visions; o il racchiudere come un gioiello a metà percorso una ballad romantica che può segnare un’estate e forse un’epoca come Velvet; o l’accarezzare gli animi più delicati con il duetto della title-track (che un po’ ricorda, per quanto mi riguarda superandolo come coinvolgimento emotivo, il più trasversalmente acclamato esordio dei connazionali The xx); o infine il congedarci con l’inevitabile crescendo riverberoso di Count Backwards from Ten (nel mezzo trovano spazio anche Dominos, singolo immediato ma un po’ troppo ruffiano per i miei gusti, e qualche riempitivo più che dignitoso).
I’m not looking for love, but it’s hard to resist. E io quando ascolto un disco come questo semplicemente mi arrendo.

myspace
i video di Too Young to Love e di Dominos
l’mp3 di Dominos in free download da Pitchfork
la pagina dei Big Pink sul sito della 4AD
il video di Velvet

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La Roux – La Roux

La Roux: La Roux (Polydor, 2009)

Pensate a una ipotetica versione al femminile dei Pet Shop Boys: non andrete molto lontano dall’atmosfera di un disco come quello de(i) La Roux. In realtà nel caso del duo britannico formato da Ben Langmaid e dalla giovane cantante Elly Jackson (la glamourosa roscia) più che di synthpop si può parlare direttamente di spudorato ritorno al technopop primi anni 80 à la Yazoo; niente chitarre, niente orchestrazioni elaborate. Quasi solo intrecci di voce e synth particolarmente tamarri, con l’elemento kitch assicurato soprattutto dall’abuso di vocoder & vocalizzi della Jackson: una che non ha le doti di una Alison Moyet (e nemmeno di una Alison Goldfrapp), però almeno canta e non starnazza. Insomma, avete già capito: siamo davanti a una sorta di risposta-meno-stupidotta a Lady GaGa nel pop da dancefloor per le masse – battaglia persa in partenza, mi rendo conto. Quel che richiama i Tennant e Lowe del recente Yes è lo spirito disimpegnato che accomuna le canzoni di questo esordio, tutte “ricercatamente facili”, di una leggerezza ben costruita. Certo, qui il songwriting non è sempre dei più raffinati (guarda caso i momenti più deboli sembrano quelli in cui calano i bpm: in un album concepito per risuonare sotto mirrorball e strobos sgargianti i punti di forza sono singoli appiccicosi come In for the Kill e Bulletproof), e ad un ascolto decontestualizzato dal mood “girls just wanna have fun” la noia può arrivare presto: però nel campo di gioco in cui La Roux irrompono, a scaldamuscolo (e ciuffo) teso, canzoni come queste vincono facile.

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i video dei singoli In for the KillQuicksand e Bulletproof

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IAMX – Kingdom Of Welcome Addiction

IAMX: Kingdom Of Welcome Addiction (61seconds/Self, 2009)

In tempi in cui un po’ tutti – dal debuttante allo sbaraglio fino alla rockstar più dotata – si cimentano con sintetizzatori e drum machine, con risultati non sempre conformi alle aspettative, quando a proporre del sano (si fa per dire) synth-rock è qualcuno che sta sul pezzo da quindici anni si va sul sicuro. Succede con Chris Corner, già membro fondatore e voce degli Sneaker Pimps nei 90’s, produttore delle più frivole Robots In Disguise e ora giunto al terzo disco con il darkeggiante progetto in proprio IAMX. L’electro-glam-wave di Kingdom of Welcome Addiction, così come quella del precedente e similare The Alternative, è infatti tecnicamente inappuntabile. L’eredità del synth-pop anglosassone c’è tutta, nella composizione e nel timbro di voce dolce e versatile; d’altra parte la permanenza berlinese di Corner ha contribuito a rendere più “continentale” e algida la sua musica, che evita derive eccessivamente indie-barocche alla Patrick Wolf e si mantiene all’interno delle convenzioni dark-wave (il che vale anche per le convincenti liriche, con sessualità, alienazione e decadenza a far la parte del leone). Rispetto al disco precedente, Kingdom Of Welcome Addiction sembra tra l’altro un passo avanti dal punto di vista del coinvolgimento emozionale: nei più trascinanti pezzi ritmati, a metà tra Goldfrapp e il Trent Reznor pop (Think Of EnglandThe Great Shipwreck Of Life) e spesso anche nei brani più lenti e/o melodrammatici (anche se dal duetto con Imogen Heap di My Secret Friend ci si poteva aspettare di più). Può bastare per allargare il pubblico di IAMX anche oltre la cerchia di affezionati del genere? Probabilmente no, anche perché una certa freddezza continua ad affiorare qua e là. Chi non è allergico a queste sonorità farebbe bene però a dare una chance a IAMX, a scapito magari di nomi più noti con molto meno da offrire (tipo, quando esce il prossimo brodino di Dave Gahan solista pensate prima a recuperare questo disco qui).

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mp3 del primo singolo Think Of England in free download sul sito ufficiale
il video di Think Of England 

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Art Brut – Art Brut vs. Satan

Art Brut: Art Brut vs. Satan (Cargo/Goodfellas, 2009)

Riuscite a nasconderlo, l’hangover, ma stamani non vi sentite granché bene. > Un altro lavoro estivo di cui sbarazzarsi. > I fumetti e dolci preferiti sempre a disposizione come priorità nella vita. > Flirtare è mani sudate, bocca impastata e panico al momento decisivo. > Beatles o Stones non fa differenza: ma solo fino al mattino dopo. > Viaggiare sui mezzi pubblici è molto più figo. > Chi compra certi dischi non dovrebbe aver diritto di voto. > Cd usati e ristampe per innamorarsi di band colpevolmente ignorate finora. > Vi piace sentire la voce del cantante che si incrina. > Ballate solo pezzi che vi piacciono.

… l’immaginario che Eddie Argos riversa nei testi dei suoi Art Brut sta tutto qui, ancora una volta: prendere o lasciare. Al terzo album, che tante sventure ha portato ad altre band inglesi arrivate al successo negli stessi anni, gli Art Brut aggiungono poi al loro art-punk cazzone l’ingrediente ideale per rinnovarlo nella continuità: la produzione di FrankBlackFrancis. Il suo tocco  si sente ovunque: nelle chitarre, nei coretti, nell’andamento svagato con improvvise accelerazioni e deragliamenti (e buona parte dei pezzi assume una dinamicità interna che prima mancava), nei colpi di coda finali (Alcoholics Unanimous). Allo stesso tempo, anche dal punto di vista musicale il quintetto inglese è rimasto quello di Bang Bang Rock & Roll. Senza stanche ripetizioni, senza cambi di rotta azzardati, ma sopratutto senza cedimenti nella scritturaArt Brut vs. Satan è solo quello che agli Art Brut si chiedeva: un altro disco da mandare a memoria, per risputarlo fuori fermi al rosso di un semaforo o sotto il palco al prossimo tour.
Naturalmente niente di tutto ciò è vero se vivete nel mondo reale, quello in cui vincono la vita rispettabile, le charts di Satana, la pista da ballo piena o volutamente vuota, i vinili e iTunes, il revival imposto dall’hype di questa stagione. In questo caso il primo album degli Art Brut poteva avervi incuriosito, ma ormai giustamente non vedete più il senso di ascoltare ancora Argos non-cantare le stesse storie da sfigato.

myspace
il video di Alcoholics Unanimous
The Passenger live in studio @ KEXP
fai del logorroico Eddie Argos il tuo guru seguendolo su Twitter e sul suo blog

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The Horrors – Primary Colours

The Horrors: Primary Colours (Beggars Banquet-XL/Self, 2009)

Che sarebbe stato l’ennesimo gruppo che riprende (anche) Bauhaus e Joy Division a tirar fuori uno degli album rock più importanti della prima parte del 2009 (per il felice incontro di maturità stilistica, freschezza, varietà e compattezza, per l’alto livello delle canzoni, per il gradimento trasversale), se lo aspettavano in pochi. Ma sul fatto che quel gruppo sarebbero stati The Horrors, fino a qualche mese fa non avrebbe scommesso quasi nessuno. Li avevamo lasciati con il bizzarro psychobilly-garage – tra Cramps, Birthday Party e spruzzi di new rave – dell’esordio di due anni fa Strange House, e al di là del genere proposto (che un po’ li confinava nella nicchia goth) i cinque londinesi avevano tutto per essere disprezzati: look imbarazzante che oltrepassa il sottile confine tra il gioco estetico estremo sulla propria immagine e i Tokio Hotel, appoggio sproporzionato del solito NME, gossip a sovrastare i discorsi sulla musica (il flirt del cantante Faris Badwan con Peaches Geldof). I nuovi Horrors hanno mantenuto i ciuffi inguardabili (anche se la copertina sfuocata del nuovo Primary Colours ce li risparmia), ma la crescita musicale è impressionante (la produzione di Geoff Barrow dei Portishead ha senz’altro contribuito) e il sound della band appare trasformato. Non è tanto una questione di maggiore “originalità” (per quanto oziosi possano essere nel 2009 i discorsi sull’originalità nella musica pop): Badwan passa anzi dalle performance selvagge a un cantato più vicino al binomio Curtis-Murphy come quello offerto da tanti, troppi gruppi recenti; e pure la struttura dei brani è in qualche modo rassicurante, per l’ascoltatore con una media infarinatura di post punk e rock alternativo/psichedelico. Su una base che resta – nella voce, nelle atmosfere – orgogliosamente wave, si affacciano qua e là iniezioni più o meno robuste di chitarre shoegaze (non esattamente una novità coraggiosa, nel 2009). Altrove orge di synth e bassi riescono a riproporre cliché Joy Division senza irritare (Scarlet Fields); non mancano poi richiami episodici al garage brutto e cattivo del debutto (New Ice Age), romanticherie a sorpresa (l’intermezzo spectoriano di Who Can Say, certi testi più speranzosi che decadenti) e un paio di momenti kraut che incorniciano e rendono più fascinoso l’intero viaggio (l’intro di Mirror’s Image e l’ipnotica cavalcata del fulminante primo singolo Sea Within a Sea: un album che finisce con un pezzo del genere istiga al riascolto immediato). Per chi la (old) new wave l’ha sempre amata e sentita nelle vene, da prima che il proliferare negli anni ‘00 di epigoni non sempre all’altezza rendesse insopportabile anche solo sentirla citare, un disco come questo è una sorta di rivincita. Perché non importa quanto il collage proposto possa essere furbetto, importa quanto funzioni: qui abbiamo dieci canzoni che travolgono (più la testa e le gambe che il cuore, va detto), che non suggeriscono la solita ambizione di diventare i nuovi U2, che sbattono di nuovo quel suono, quei fremiti e quell’inquietudine in faccia a tutti.

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streaming dell’intero album

il video di Sea Within a Sea
il video di Who Can Say

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Maxïmo Park – Quicken The Heart

Maxïmo Park: Quicken The Heart (Warp/Self, 2009)

Un singolo instant-classic come The Kids Are Sick Again e la sirena angosciante che infiamma Wraithlike in apertura erano segnali confortanti per chi confidava che i Maxïmo Park al terzo album non avrebbero tradito. Purtroppo anche i fans più affezionati del quintetto inglese (tra cui mi annovero) devono ammettere, con un filo d’amarezza, che nel complesso in Quicken the Heart si sente la mancanza sia della freschezza dell’esordio A Certain Trigger che delle melodie nervose e disperate di Our Earthly Pleasures (di cui musicalmente QTH costituisce una sorta di esasperazione). Certo, siamo sempre ben sopra la media del post-punk-revival da anni imperante: chi aveva a lungo sorseggiato la cicuta smithsiana di Books from Boxes avrà modo di ritrovare quella malinconia in Questing, Not Coasting o in Calm; chi si era esaltato con Our Velocity avrà a disposizione sfuriate chitarristiche in abbondanza. Laddove però OEP manteneva alti il ritmo e la tensione emotiva dall’inizio alla fine, qui diversi brani non sono esenti da sbavature. Talvolta un crescendo fantastico è spento nel finale da un ritornello poco convincente (The Penultimate Clinch); spesso dispiace che non abbiano seguito adeguato certi ganci melodici assassini, o gli squarci di genialità di un Paul Smith vocalmente ineccepibile ma dalla penna complessivamente meno ispirata. Dove più ci si distacca dai canoni compositivi del gruppo, poi, i risultati sono altalenanti (imbarazzante seppur appiccicoso il disco-funk-rock sensuale di Let’s Get Clinical, inconcludente il trionfo di synth di Tanned). Insomma, ci teniamo il pathos di Roller Disco Dreams e una buona manciata di altri pezzi in cui annegare le paturnie di un’estate (”the comforting ache of the summer holidays“): il resto è buon materiale per le scalette dei concerti tiratissimi del gruppo, ma difficilmente lascerà troppe cicatrici nel nostro cuore (meglio così?).

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il video di The Kids Are Sick Again
una bella versione acustica di I Haven’t Seen Her in Ages, da uno showcase a Glasgow
il video del nuovo singolo Questing, Not Coasting

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Morrissey – Years Of Refusal

Morrissey: Years of Refusal (Decca-Polydor, 2009)

Poche popstar sono in grado come Morrissey di suscitare reazioni così forti (dall’adorazione incondizionata alla critica feroce, dall’emozione bambinesca per il primo ascolto di una nuova uscita al puro delirio estatico ai concerti) in un pubblico trasversale ma in buona parte ultratrentenne. Ascoltatori spesso onnivori e obiettivi all’improvviso diventano super-esigenti o super-indulgenti (con sbalzi schizofrenici tra i due atteggiamenti, a loro modo due forme opposte di snobismo) di fronte a chi ha sfornato in passato canzoni che in qualche modo hanno cambiato la loro vita. Anche per Years of Refusal le critiche non sono mancate, eppure su questo disco sprazzi di quello che più fa amare l’ex Smiths si ritrovano. Si ritrovano nell’attacco di Something Is Squeezing My Skull, che mostra una freschezza d’altri tempi nel definire subito il suono dell’album (a metà strada tra il piglio grintoso del precedente e meno ispirato Ringleader of the Tormentors e l’eleganza di You Are the Quarry, con cui condivide lo scomparso Jerry Finn come produttore); nella cupezza d’animo di Black Cloud; in pezzi come When Last I Spoke To Carol, da bollare inizialmente come baracconate kitch per poi farsene sedurre a tradimento nel giro di un mese (come per tante album track di tempi migliori); ma anche nel crescendo disperato di It’s Not Your Birthday Anymore, che spezza il cuore all’istante. E allora si può passar sopra all’inclusione in scaletta dei due singoli del Greatest Hits del 2008 (operazione discograficamente discutibile seppur artisticamente coerente: stesse sessions di registrazione, l’intero album era già pronto un anno fa). E anche ad alcuni passaggi a vuoto (vedi l’immediato ma piatto singolo I’m Throwing My Arms Around Paris, in cui le idee si fermano a un verso da romantici senza speranza come “only stone and steel accept my love“). Ok, penso si sia capito in quale estremo si colloca chi scrive, per il quale magari “there is no love in modern life“, ma (passando a citazioni più criptiche e datate) quella luce non si è ancora spenta.

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l’imbarazzante “video dei cagnolini” di I’m Throwing My Arms Around Paris
i video dei precedenti singoli That’s How People Grow Up e All You Need Is Me
la storia che si nasconde dietro la copertina del disco

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The Cure – 4:13 Dream

The Cure: 4:13 Dream (Geffen/Universal, 2008)

Dopo l’imbarazzante self-titled del 2004 l’interesse attorno alle nuove produzioni discografiche dei Cure era forse calato ai minimi storici. Ma Robert Smith non demorde: via il produttore nu metal Ross Robinson, fuori Bamonte e O’Donnell, dentro (di nuovo) l’aggressiva chitarra di Porl Thompson. Con 4:13 Dream (tredicesimo l’album, 13 le tracce totali, 4 i singoli apripista pubblicati il 13 di ogni mese!) si torna al pop chitarristico di inizio anni ‘90, anche se non mancano richiami all’epoca Disintegration o ancora precedente. Dall’apertura splendida e dreamy (appunto) con Underneath the Stars fino alla paranoica The Scream e all’indiavolata It’s Over che chiudono è una summa, con qualche ritocco di make-up e rossetto sbafato a evitare l’effetto-fotocopia, del sound dei Cure più maturi: il tutto attraverso brani tutti dignitosi pur senza picchi, neanche nei singoli (The Only One è carina ma prevedibile, Sleep When I’m Dead e Freakshow non trascinano come nelle intenzioni, e nella seconda l’assolo continuo in sottofondo infastidisce). Roba che difficilmente si farà strada negli ascolti di chi non ha la musica di Smith & soci nel sangue (e magari preferirà rivolgersi alle miriadi di giovani cloni). Chi invece è cresciuto a pane burro e Just Like Heaven forse si avvicinerà a 4:13 Dream con pigrizia, ma se metterà da parte le aspettative di suoni forzatamente cool o di improbabili evoluzioni compositive (i testi pescano dal solito immaginario da eterna adolescenza) sarà lentamente conquistato: come chi torna a casa e si commuove nel riabbracciare per alcuni giorni antichi luoghi e odori, con l’iniziale sensazione di déjà vu che lascia spazio a quella di appartenenza e pacificazione. Se pure nel 2008 non ha senso limitarsi all’ascolto di dischi simili, a uno Smith in questa forma ogni tanto si tornerà sempre a far visita volentieri.

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i video di The Perfect Boy e Sleep When I’m Dead

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Absentee – Victory Shorts

Absentee: Victory Shorts (Memphis Industries/Cooperative Music, 2008)

Segue le nuove tendenze mantenendo un certo snobismo di fondo; non si è mai davvero disintossicato dal britpop anni 90; ama i testi taglienti e le voci basse, profonde e un po’ ubriache. Questo potrebbe essere l’identikit dell’ascoltatore medio degli Absentee, quintetto londinese al suo secondo album. In effetti i dieci pezzi diVictory Shorts sono inglesi fino al midollo, nello spirito e nella forma. Di gruppi come i Pulp si ritrova sia l’eleganza dei lenti (Love Has Had His Way..) sia il gusto per il brano pop d’impatto ad alto voltaggio. Ma se i due singoli Bitchstealer e Boy, Did She Teach You Nothing? sono la ciliegina che invoglia ad approfondire, dopo qualche ascolto l’intero album rivela un certo fascino, anche a chi non impazzisce per il timbro di Dan Michaelson (pensate a Matt Berninger dei National alle prese con il repertorio di Jarvis Cocker: l’effetto immediato non è dei più rassicuranti): sarà per l’amaro romanticismo delle melodie e le spruzzate di humour nei testi; sarà per il fondamentale contrappunto della tastierista Melinda Bronstein nei cori (a rendere l’insieme di volta in volta più dolce o più sbarazzino); sarà per la personalità della band, che prevale sui suoi aspetti più modaioli (vedi appunto il duetto tra le due voci, che ultimamente si porta molto); sarà soprattutto per alcuni pezzi che alla distanza si rivelano tra le cose migliori (Spitting Feathers, con il suo sofisticato crescendo). Del resto, forse il complesso di inferiorità di tanti verso i gruppi pop d’oltremanica non è dovuto solo a una nostalgia un po’ turistica e provinciale per il West End e i bus a due piani, ma anche al fatto che di dischi come questo l’Inghilterra ne sforna ogni anno diversi. Per fortuna.

myspace
il video di Bitchstealer
il video di Boy, Did She Teach You Nothing?

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Wild Beasts – Limbo, Panto

Wild Beasts: Limbo, Panto (Domino/Self, 2008)

Difficilmente moniker scelto e musica proposta si sposano alla perfezione come per i Wild Beasts. L’esordiente quartetto inglese, che ruba il nome a un’avanguardia espressionista di inizio Novecento (i Fauves, “bestie feroci” in francese), presenta infatti in Limbo, Panto10 pezzi tanto vividi quanto scioccanti. Il loro è un art-rock chitarristico ma mai muscolare, incredibilmente raffinato per l’età media (poco più di ventanni) e personale nonostante le influenze più varie affioranti qua e là (dal glam alla disco, dall’alt-pop contemporaneo a certe sperimentazioni di Kate Bush fino ai Queen più freak). Ma a sorprendere di più è la voce di Hayden Thorpe: un monstrum che per timbro e stile che richiama di volta in volta Mika, Matt Bellamy ed Antony (anche nello stesso pezzo!), con ricorso continuo al falsetto. È questo al tempo stesso l’elemento più affascinante e il potenziale punto debole dell’album. L’ingombrante performance vocale del leader rischia infatti di “mangiarsi le canzoni”, le quali nonostante arrangiamenti e idee pregevoli (le svolte ritmiche, i cori, i testi dal lessico colto e pieni di allitterazioni) richiedono pazienza e attenzione nell’ascolto e avrebbero probabilmente tratto beneficio da un cantato più accattivante e immediato (con le dovute eccezioni, come Brave Bulging Buoyant Clairvoyants). Non a caso tra i pezzi più accessibili ci sono i 2 in cui la voce principale è quella elegante, più bassa e meno istrionica del bassista Tom Fleming (His Grinning Skull, il singolo The Devil’s Crayon). È soprattutto lì che si riesce ad andare oltre una sterile ammirazione cerebrale per l’originalità compositiva della band di Kendal (comunque una boccata d’aria fresca in un panorama discografico che propone emuli a getto continuo) e lasciarsi “impressionare” dalla sua musica – che era poi lo scopo dichiarato fin dalla scelta del nome, no?

myspace e sito ufficiale
i video di The Devil’s CrayonBrave Bulging Buoyant Clairvoyants e del precedente singolo (non incluso nell’album) Assembly

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Kaiser Chiefs – Off With Their Heads

Kaiser Chiefs: Off With Their Heads (Polydor, 2008)

I want to retire“, “I’ll leave the party in style“: nel 2007 Ricky Wilson chiudeva così (inRetirement) il secondo album dei Kaiser Chiefs. Ecco, ascoltando l’opera terza Off With Their Heads ci si rammarica quasi del mancato seguito a quell’ironica promessa. E dire che l’inizio promette bene: il breve pasticheSpanish Metal (riff hard-rock epici a creare un effetto-kitch voluto e divertente) è un’ottima intro; mentre il singolo Never Miss a Beat, tiro micidiale e ritornello ripetitivo ma irresistibile, rivaleggia con le hit di Employment. Il tentativo di tornare alla felice formula dell’esordio (una versione anabolizzata e de-intellettualizzata dei Blur più yè-yè) si avverte a tratti anche nei brani successivi, ma con risultati perdenti anche nel confronto con il bistrattato e più muscolare Yours Truly, Angry Mob. In realtà le melodie pop canticchiabili già dopo due ascolti (marchio di fabbrica del gruppo di Leeds) ci sono anche stavolta, ovunque. Solo che giunti al terzo ascolto si avverte già una sensazione di stantìo – non si sa quanto per impasse compositiva e quanto a causa della produzione rileccata di Eliot James e Mark “prezzemolino” Ronson (ancora tu: ma non dovevamo vederci più?). Sopra la media la sincopataHalf The Truth (nonostante un improbabile inserto rap!) e la delicata Tomato In The Rain: per il resto si va dall’insipido al già sentito (in Always Happens Like Thati cori sono di Lili Allen, ci dicono: yawn). Probabilmente ben altri gruppi dovrebbero “ritirarsi” prima dei Kaiser Chiefs. Ma il consiglio per il prossimo disco è, parafrasando l’unico pezzo che di questo resterà, “take a look on Stephen Street”, e richiamare il vecchio produttore di corsa. Oltre a proporre pezzi migliori.

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il video di Never Miss A Beat

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Eugene McGuinness – Eugene McGuinness

Eugene McGuinness – Eugene McGuinness (Domino/Self, 2008)

Del giovane singer-songwriter inglese Eugene McGuinness (origini irlandesi, natali a Londra, studi universitari e attuale residenza a Liverpool) si era cominciato a parlare un anno fa, dopo l’uscita del mini album The Early Learnings of…e il successo del delizioso singolo Monsters under the Bed. Se già le 8 tracce datate 2007 avevano mostrato una discreta maturità in rapporto all’età (classe 1985), le 12 composizioni di questo esordio vero e proprio dal fantasioso titolo Eugene McGuinnessconvincono per realizzazione e varietà. A pesare negativamente sull’accoglienza riservata a McGuinness potrebbe esserci, va premesso, la scarsa attenzione iniziale da parte di quanti non impazziscono per certo cantautorato-rock britannico (il suo stile, pur mantenendosi fresco e personale, ricorda a tratti Kinks, Weller e Billy Bragg). Inoltre se la versatilità della voce, l’arguzia dei testi e la cura nella produzione si notano subito, così come la scioltezza nei passaggi da un registro all’altro, i brani ci mettono un po’ a carburare davvero e suscitare empatia. Dopo qualche ascolto però è impossibile non apprezzare almeno qualcuna di queste canzoni: personalmente mi diverto a battere il piedino sulle brevi e ficcanti Fonz eNightshift (che preferisco al comunque gradevole singolo apripista Moscow State Circus), mentre tra gli episodi più rilassati spiccano a mio parere Knock Down Ginger e Atlas, per delicatezza del cantato e soluzioni nell’arrangiamento. Qualche pezzo continua a ispirarmi meno (le strascicate ballads Those Old BW Movies… eGod in Space, la stessa scatenata Rings Around Rosa che apre il lotto), e nel complesso non posso dire di esser stato folgorato da questo disco: ma bisogna ammetterlo, “il ragazzo gioca bene” e va senz’altro tenuto d’occhio.

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il video di Moscow State Circus e quello di Monsters under the Bed (il singolo del 2007)

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Bloc Party – Intimacy

Bloc Party: Intimacy (Wichita, 2008)

Il controverso singolo Mercury (a tratti respingente anche dopo molti ascolti) faceva temere il peggio per il terzo album dei Bloc Party. Invece, sorpresa: con le sue 11 tracce (alle 10 già uscite in versione digitale ad agosto si aggiunge ora il secondo singolo Talons), Intimacy è probabilmente quel seguito che Silent Alarm avrebbe dovuto avere subito. Un album con una maggioranza di brani ritmati, che abbandona il percorso verso il rock da stadio intrapreso con il deludente A Weekend In The City, per riproporre invece l’energia e gli assoli indiavolati dell’esordio. L’uso crescente dell’elettronica evita il déjà vu nei brani più chitarrosi (diversi i potenziali eredi diHelicopter sulle piste), e arricchisce anche gli unici 3 che fanno rifiatare (prescindibili ma in media dignitosi: del resto, quanti amano il gruppo di Kele Okereke per le ballads?); nel finale del disco, poi, synth e basi prendono sempre più piede. L’amarezza dei testi, principalmente centrati su lutti e amori finiti (l’intimacy del titolo), ben si sposa con la musica – e stavolta Kele ci risparmia le citazioni di foie gras e sudoku sentite in Weekend. Pur con qualche momento imbarazzante (i cori misticheggianti di Zephyrus) o involuto (i 2 esperimenti iniziali à la Prodigy), nel complesso il disco cresce con gli ascolti, e se farà di nuovo storcere il naso a molta critica, che forse cerca nei Bloc Party una raffinatezza che non hanno mai avuto (neanche nell’ottimo Silent Alarm), piacerà più del precedente a chi ama il gruppo e l’adrenalina che sprigiona. Il prossimo album, se ben meditato, potrebbe offrire di più.

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il video di Talons

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Friendly Fires – Friendly Fires

Friendly Fires – Friendly Fires (XL, 2008)

C’era bisogno, a fine 2008, dell’avvento di un ennesimo gruppo punk-funk? Se risponderete d’istinto NO! a questa domanda, probabilmente delle due l’una: onon avete ancora ascoltato l’omonimo album di esordio degli inglesi Friendly Fires, oppure l’ondata punk-funk l’avete mal tollerata in toto fin dall’inizio. Il suono DFA (e relative radici) nella sua incarnazione più pop e i nomi di !!!, Rapture e Lcd Soundsystem (o degli ormai innumerevoli epigoni) sono infatti i primi riferimenti che saltano alle orecchie all’ascolto di queste canzoni. Primi, non unici: se brani come Strobe e On Board sono esplicitamente debitori dei !!! (ed è la somiglianza più forte), se il tributo (vocale e non) ai Talking Heads di In the Hospital è evidente, se in Jump in the Pool e Lovesick si ritrova la catchiness dei primi Rapture, c’è spazio anche per pezzi electro-pop tamarri che ricordano di volta in volta Soulwax (White Diamonds), CSS (la base di Skeleton Boy), persino Scissor Sisters (il falsetto e i ritmi ruffiani di Photobooth). In pratica un bignami furbetto di quasi tutto il pop-rock ballabile di successo degli ultimi anni. Il punto è che la scarsa originalità stilistica (anche nella voce di Ed Macfarlane) non inficia affatto la riuscita delle canzoni, tanto che tra tutte e dieci si fa fatica ad additarne una più debole. Basta avere le idee chiare su cosa si cerca: quello del trio britannico è un disco di pop immediato e senza pretese che centra il suo scopo, ovvero far ballare e divertire dall’inizio alla fine. E con il singolo Paris concede anche un momento romantico (l’esplodere del dolce ritornello “and every night we’ll watch the stars / they’ll be out for us“), in cui guardarsi magari negli occhi – senza alcun bisogno di abbandonare la pista.

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il video di Paris
l’intervista di Ed Macfarlane a Drowned In Sound, con i retroscena sulla registrazione di ogni singola canzone

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I can’t live my life feeling nervous about tomorrow

Lo ascolto ormai da mesi.
L’ho comprato appena uscito nonostante conoscessi già le sue canzoni a memoria.
E’ già da un po’ che ne vorrei scrivere, ma non ci riuscivo: mi veniva voglia soprattutto di ascoltarlo e di cantarlo, non di descriverlo.
Mi sono letteralmente innamorato di Our Earthly Pleasures, il secondo album dei
Maxïmo Park.Uno dei migliori album dell’anno, e già l’album dell’anno per me, oserei dire.
E ora, qui, ne parlerò in lungo e in largo quanto mi pare: così magari smetterò di tediare dal vivo tutte le persone che incontro.
 


 
Un mesetto fa ancora mi chiedevo se questo disco avrebbe retto il confronto con l’ottimo A Certain Trigger, che nel 2005 già aveva imposto il quintetto di Newcastle come una delle migliori realtà, all’interno di quel plotone di band britanniche lanciate da NME in questi ultimi anni e dedite a certo revival di newwave, post-punk e rock’n’roll scazzone (in mille declinazioni e combinazioni diverse).

Beh, posso affermare con sicurezza che non solo regge il confronto, ma a mio parere si tratta di un disco più maturo e più completo, senza grossi cali di tensione nè di qualità.
L’album suona certamente più "prodotto". Anche se forse qualcuno rimpiangerà la freschezza ed essenzialità di certe canzoni dell’esordio, a mio parere l’apporto di Gil Norton (che è stato dietro tra le altre cose a The Colour And The Shape dei Foo Fighters e Doolittle dei Pixies, mica bruscolini) è fondamentale nel rendere il suono dei Maximo Park (ah, mi rifiuto da qui in poi di utilizzare la snobbissima dicitura Maxïmo Park) più "arrotondato": più pop e più sferzante allo stesso tempo (lui, che pure ha gradito, ben sintetizza così:
"più ragionato e cerebrale, meno immediato del precedente ma altrettanto efficace").

Detto ciò, lo stile dei nostri non è affatto snaturato. Tra i numi tutelari ci sono sempre Clash e Jam (per l’attitudine), Wire e Stranglers (per l’innesto di tastiere e synth sulla struttura post-punk) e Smiths quanto basta. Senza l’effetto-fotocopia verso nessuno di questi, però.

Con Morrissey il cantante/paroliere Paul Smith (cog-nomen/omen?) ha in comune innanzitutto la nitidezza della pronuncia british (cosa che apprezzo particolamente); il timbro è invece assai più ordinario e rough, anche se si sposa benissimo con l’andamento ora dolce ora nervoso dei pezzi – sempre interpretati col giusto pathos.

Un certo spirito smithsiano affiora spesso (oltre che nello stile chitarristico di alcuni pezzi) anche nei testi. Della scrittura del Moz mancano i riferimenti colti, e i temi non si discostano dal classico binomio tormenti d’amore/disagio esistenziale, ma in ogni canzone arriva sempre a un certo punto la frase ad effetto che sorprende, colpisce duro o più semplicemente suona perfetta in *quel* punto, continuando poi a risuonare per giorni nella testa e nelle orecchie.

1.

The path of excess just led to boredom
You’ve lived your life with your mouth wide open

Girls Who Play Guitars è un apertura tirata e senza troppe pretese. Riff secco e melodia piuttosto convenzionale (che pure non annoia mai). L’impennata a sorpresa c’è nel bridge tastierosissimo:

When you lie on my bed and you label me your friend
Don’t you know how much that hurts?
You could pretend and I wouldn’t know
I could be who you wanted in the dark

E’ la sua vita e lei vuole viverla al massimo, giusto così. Anche se questo può significare lasciarsi indietro qualcuno che, rispetto alle sue parole, trova più intriganti i suoi silenzi e più significativi i suoi sospiri.

2.

Never never try to gauge temperature
When you tend to travel at such speed
It’s our velocity
Is it cold where you are this time of year?
You didn’t leave a scar

La pompatissima Our Velocity è un singolo-killer quanto lo era stato Apply Some Pressure: come quella, riesce a tenere al massimo il tiro per tutta la sua durata. Strofe affilate, il ritornello ultra-catchy di cui sopra, ancora una volta le tastiere ad alzare il tasso drammatico

I’ve got no one to call
In the middle of the night anymore
I’m just alone
With these thoughts

…e neanche il tempo di rifiatare che parte un nuovo crescendo, che porta ai versi topici della canzone e forse dell’intero album, da cantare e ricantare a squarciagola

Love is a lie, which means I’ve been lied to,
Love is a lie, which means I’ve been lying to
Love is a lie, which means I’ve been lied to,
Love is a lie

3.

We rarely see
Warning signs in the air we breathe

Lo smithsianissimo mid-tempo Books From Boxes è annunciato come secondo singolo. Quel jingle-jangle è 100% Marr, il testo è da magone come non mai (l’apice di tristezza sarà raggiunto nel finale sussurrato): già pronta per diventare la hit dei momenti più malinconici dell’estate prossima ventura.

This is something new
But, it turns out it was borrowed, too
"Why does every letdown have to be so thin?"

Su accordi strazianti che si susseguono come stilettate (le persone si dividono in due gruppi, quelle che non riescono a reprimere un brivido ascoltando questa canzone, e quelle che no) vengono ripercorse le tappe finali di una storia. L’epilogo arriva quasi come una liberazione, dopo che qualcosa si era rotto. O forse in realtà non c’era niente da rompere…

Two bodies in motion
This is a matter of fact
It wasn’t built to last

4.

Are you hopeful or just gullible?

Chiude la tripletta di pezzi spettacolari il drama-piano-rock di Russian Literature, in cui la fanno da padrone le tastiere: nell’intro finto-tranquilla (prima che si scateni l’inferno) così come in tutto il resto del brano, in cui fanno da contrappunto al cantato quasi isterico di Smith e riempiono di pathos i momenti di passaggio.

Our earthly pleasure distract us against our will…

Il testo è poco chiaro nel suo significato, si procede (come in altri casi) per giustapposizione di frasi ad effetto. Quel che si capisce è che "lei non può essere salvata", e la relazione di cui si parla non dev’essere stata esattamente tutta rose e fiori.

…I already knew her name!

5.

You write a list of things to do
To o
ccupy the time that you could use

Karaoke Plays, che segue, ha dalla sua la bellezza della semplicità: strofe tranquille semiacustiche (ma sempre colorate qua e là dalle tastiere), ritornello che esplode per ben tre volte alzando sempre l’asticella dell’emo-zione, bridge tutto sommato prevedibile a rallentare il tutto al momento giusto.

Someone gets run down
Karaoke Plays somewhere in the background
But there is no explanation.
What makes a grown man cry?
Karaoke Plays and someone gets run down

Al poco allegro refrain si contrappongono altre parti del testo, più rassicuranti, che descrivono scene di una tenera quotidianità di coppia forse ormai compromessa

…every night we’ve got so much to say
I want to hear all the things tou did today…

 
6.

People are judged on their mistakes
And how much money that they make

Your Urge chiude alla grande la prima metà dell’album (complessivamente superiore alla seconda, che comunque ben si difende). Un saliscendi incredibile di ritmo e passione. "You don’t have to deny your urge", l’apertura, potrebbe essere una delle frasi manifesto dell’intero disco.
Per due volte il pezzo, dopo averti fregato partendo placido, affronta un lungo crescendo strumentale e drammatico.
La prima volta si ferma all’improvviso e fa rifiatare.
La seconda non ce n’è per nessuno: solo voglia di premere sull’acceleratore, gridare o scuotere la testa per sfogare la rabbia. Il beffardo finale, poi, sarà di nuovo leggero.

…the night-time is a lifeline
The weekend is a Godsend
another useless fumble
another drunken stumble
Oh, but the pinkness near your iris
Reveals that you’ve been crying
But I don’t know what my crime is…

7.

The human heart is on trial for a limited spell
A human trial is on offer for a limited spell

The Unshockable ci ricorda che i Maximo Park sarebbero una delle tante "NME-rock’n’roll bands". Soltanto che loro sono i più bravi di tutti, e anche con un riempitivo muscolare e senza pretese come questo rimandano dalla mamma gli Arctic Monkeys (con tutto il rispetto…), in clinica di riabilitazione il ridicolo Pete Doherty (con meno rispetto…) e a casa a studiare quasi tutti gli altri gruppi inglesi contemporanei/epigoni (il paragone coi Franz Ferdinand invece non si pone: qui si gioca sul campo dei sentimenti, lì su quello del divertimento on the dancefloor).
Divertente il falso finale con successiva ripresa, al risuonare di una specie di jingle da altoparlante.

Conceal those thoughts that linger on your breath
Keep them hidden or they’ll catch their death

8.

I touched the place where your hair had been
I buttoned the shirt that you left round mine…

By The Monument, col suo ritmo serrato (e tanto di hand-clapping), parte a bomba subito dopo. Un altra di quelle fottute canzoncine pop-rock che sembrano innocue e invece, dopo due volte che ascolti le loro rime tutte-al-posto-giusto, ti senti già lì che stai sprecando anche tu il tuo tempo accanto a quel monumento, ad attendere nient’altro che la pioggia.

No more late night falls
where teardrops fall…

9.

Some people hide their emotions
Some people show too much

Col rocckettino leggero di Nosebleed Paul Smith continua a raccontare le sue imprese da tappetino umano. Stavolta il problema è che lei ha un altro per la testa (o meglio, questa volta lui se ne rende conto). Eppure le cose potrebbero essere così semplici, così perfette, maledizione.
Ah, secondo me utilizzare parole come "nose" e "last night I dreamt" non è casuale (quali canzoni di un certo gruppo sopracitato vi vengono in mente?).

Did we go too far? Is that why your nose is bleeding?
Last night I dreamt we kiss on a bench in the evening

10.

Would you like to go on a date with me?
And, I know, it’s old-fashioned to say so

La divertente A Fortnight’s Time è un altro di quei pezzi più simili a quelli del primo disco e relativamente più "scarni".
"In a fortnight’s time you will be mine": un corteggiamento insistente, ma anche autoironico nell’avere ben chiaro il proprio stato di sfigato cronico:

When it comes to girls, I’m mostly hypothetical
If I list their names, it’s purely alphabetical
When it comes to girls, I’m truly theoretical
If I test their nerve, it’s merely dialetical

11.

Follow me down this ropeladder
Our bodies becoming shapes on the sails
It’s a leap of faith, it’s a crash landing
Thin ice softly splinters

La malinconica Sandblasted And Set Free è già quasi un saluto, la presenza degli archi è tipica di un pezzo da fine album. Ma non siamo ancora ai titoli di coda: ce lo ricorda l’assolo che partirà quasi inaspettato a movimentare il brano.

I fell in love with flirtation
The brevity of sensation

12.

Parisian skies,
Shadows beneath your eyes,
All we have is now,
And the arc of your brow

Uh-uh-uh-uh-uhuh-uh-uh-uh-uh-uhuhuhuhuhhh.
Parisian Skies: uno splendido finale.
Il cantato che inizia all’improvviso. Poi quel falsetto irresistibile. Poi il mantra che non ti aspetti:

Is this the thrill of the chase?
How can I keep up the pace?
Is this the thrill of the chase?
How can I keep up the pace?

Si parla di un addio sofferto, ancora una volta.

– – –

Ma per l’ascoltatore è solo un arrivederci, perchè staccarsi da questo album è davvero difficile, quando se ne viene conquistati.
Solo canzonette, dicevo sopra. Poca sperimentazione, poca innovazione, niente virtuosismi vocali. Ma in tutti questi 12 pezzi c’è urgenza rock, maestria compositiva pop, rabbia, serenità, sofferenza, passione, urgenza, anima.
So che può suonare trito e banale, ma questa è musica che attraverso pochi versi e accordi ben assetati ti può entrare dentro e confondersi coi tuoi ricordi, le tue speranze, le tue inquietudini.

File under "Canzoni che ti fanno piangere e che ti salvano la vita"? Per quanto mi riguarda, la risposta rischia fortemente di essere sì.

[Video: Our Velocity]

Cd of delusion?

Ho deciso che per Black Holes And Revelations dei Muse (alla fine l’ho ascoltato, a quasi un anno dall’uscita) il solito pippone logorroico sarà a punti.

Da leggere verrà lungo uguale, probabilmente.



Premessa. I Muse non sono mai stati tra le mie band preferite (nel senso di “del cuore”), ma tutti i loro dischi precedenti mi erano piaciuti e li ho ascoltati molto,
Absolution compreso. Mi sembra ingrato non riconoscere il gruppo inglese come uno dei più talentuosi fra i gruppi pop-rock che pestano, soprattutto dal vivo (purtroppo non li ancora visti: ma spero di rimediare, prima o poi). Per non parlare della indubbia personalità di Matthew Bellamy, sia alla chitarra che alla voce.

Insomma, in un periodo in cui è un po’ di moda da parte di certa critica sparare a zero sul loro rock pomposo e ipertrofico, nonchè additarli come precursori dell’emo e simbolo della decadenza della musica intiera, io li difendo. D’accordo, saranno eccessivamente muscolari, saranno troppo sinfonici ed elettronici allo stesso tempo, sarà insieme tamarra e pretenziosa la scrittura di Bellamy. Ma il terzetto del Devonshire ha comunque creato e sviluppato negli anni un proprio stile, affrancandosi dalle influenze iniziali (Radiohead in primis). E continua a tirare fuori ottimi pezzi (anche se in quantità sempre minore, come vedremo).
Certo, è bene che chi è allergico alle caratteristiche sopra menzionate si tenga alla larga.


– Il produttore (insieme a loro stessi) e mixer di questo disco è Rich Costey, lo stesso del precedente Absolution e del secondo album dei Franz Ferdinand.

Oltre a questi stessi dischi e a Silent Alarm dei Bloc Party, Costey ha mixato tra i tanti anche gli album di Mars Volta e My Chemical Romance. Parlavamo di rischio tamarraggine?

Musicalmente, si prosegue nella strada tracciata da Absolution. In sintesi, ci sono più baracconate, più tracce improponibili, più synth. E meno ballate, per fortuna (visto che le uniche 2 presenti sono stracciapalle come non mai). In genere i pezzi più riusciti sono quelli più simili alle cose che hanno già fatto (il che nell’ambito del giudizio su un album potrebbe già rappresentare la pietra tombale, mi rendo conto).

 



– L’album inizia con Take A Bow, come il precedente iniziava con Apocalypse Please. Stesso crescendo ridondante con trionfo di tastiere schizzate e rintocchi di piano, stesso testo apocalittico. Che fantasia! (comunque, mettendo da parte l’effetto deja-vu, è una degna introduzione)

– Sarà anche contenuto nel peggior album mai pubblicato dai Muse, ma Starlight è forse il loro best single ever. Anzi, dal punto di vista della melodia e dell’orecchiabilità sovrasta senza dubbio anche le prime hit. Potenza del mestiere? Dell’ammorbidimento (loro e mio)? Fatto sta che questo mid-tempo, col suo giro di tastiera  e i continui passaggi dal tono soffice di alcune sezioni al ritmo aggressivo di altre, non stanca davvero mai.

– Se il secondo singolo Starlight è forse il migliore di sempre, il primo Supermassive Black Hole è il loro peggiore senza se e senza ma. Un ibrido mostruoso: il falsetto sembra quello di Prince, gli effetti quelli del peggior Marilyn Manson da Mtv (toh, infatti il video era a firma Floria Sigismondi).
E non si tratta solo della reazione iniziale allo scioccante cambio di stile: ancora adesso trovo la canzone indifendibile come quando uscì. La strofa falsettata in realtà potrebbe avere un suo perchè, se fosse seguita da qualche idea. Invece tutto poi si spegne tra controcori stantìi, noiosi giochetti elettronici e un assolo senza capo nè coda.

Map Of The Problematique invece è promossa. Melodicamente sarebbe un classico pezzo Muse; la produzione la pompa all’inverosimile richiamando Killers e Depeche Mode se non addirittura Sisters Of Mercy (!). Lo so, fa paura descritto così, ma l’adrenalina è assicurata.

– Il lentone Soldier’s Poem è una riedizione della noiosetta Blackout del disco precedente, con l’aggiunta di coretti natalizi alla Bing Crosby. Il suo maggior pregio è quello di durare solo due minuti spaccati.

 

Invincible è il festival della retorica Muse: c’è il testo retorico, il crescendo retorico dall’inizio alla fine, l’assolo retorico e pacchiano, i vocalizzi retorici di Bellamy. Esattamente quello che chi ascolta i Muse ama odiare, od odia amare che è lo stesso.

Infatti è stata appena estratta come quarto singolo.

Assassin è il pezzo più cattivone e tirato di tutti, tanto che all’inizio sembrano i System Of A Down. Anche qui adrenalina a mille, il risultato finale non è male.

Exo-Politics è l’ultimo pezzo decente. E’ anche il più simile, nell’incedere ritmico, a Supermassive Black Hole, rispetto al quale si lascia più ascoltare perchè oltre alle chitarre sgarzoline c’è anche un’idea melodica (per quanto banalotta).

– Da qui in poi, il diluvio. City Of Delusion sarebbe un altro pezzo decente dalla classica struttura-Muse, arricchito da qualche inserto elettronico: lo rovina la presenza eccessiva degli archi (qui arrangiati da Mauro Pagani!), ma soprattutto quell’insopportabile trombetta tex-mex sul finale.

Hoodoo sembra, nella sua infinita intro spagnoleggiante, una b-side dei Mars Volta più strafatti. Teatralmente inutile.

Knights Of Cydonia, che chiude il disco, è l’episodio più indefinibile e imbarazzante.
Morricone + Rush + EBM + Iron Maiden + il ritorno delle malefiche trombette messicane.
La cosa più spaventosa è che a volte, se si ascolta distrattamente, l’orrido mix sembra quasi funzionare (grazie a un certo potenziale catchy di alcune sue parti). Se invece si ascolta seriamente, dà ai nervi e basta.

 



I miei due cent sulla scelta dei singoli. Io, truzzata per truzzata, avrei scelto Map Of The Problematique al posto di Knights Of Cydonia: si sarebbe forse parlato di svolta nu rave dei Muse, ma probabilmente si sarebbero sputtanati meno.
Ah, e ovviamente SBH l’avrei addirittura espunta dalla tracklist dell’album.

Conclusione spiccia: 5-6 i brani da salvare, tra cui solo un paio aggiungono qualcosa alla storia del gruppo. Speriamo che al prossimo giro siano più ispirati. E che nei prossimi tour peschino di più nel repertorio del passato.

Sezione video:
(se i link terranno a lungo, non è dato sapere…)
Supermassive Black Hole
Starlight
Knights Of Cydonia
Invincible

Non ne avete ancora abbastanza? A carampani ed appassionati dei Muse consiglio di visitare il blog della Fran, che ha dedicato loro addirittura una apposita categoria con post che pullulano di trivia e cadeau vari audio-video.